
di A. Scorrano
L’eventualità di nuovi dazi statunitensi sulle importazioni europee, introdotti da Donald Trump, neo-presidente degli Stati Uniti d’America, riaccende i riflettori sulle fragilità strutturali del modello economico tedesco ed europeo. Per decenni, l’Unione Europea ha costruito la propria crescita sulla centralità dell’export, sacrificando la domanda interna e comprimendo i salari in nome della competitività globale. Tuttavia, il riemergere del protezionismo e la crescente competizione con le economie emergenti impongono un ripensamento di questo assetto, ormai sempre più vulnerabile agli shock esterni. Se fino a oggi la strategia europea si è fondata sulla disciplina fiscale e sul rigore monetario, la prospettiva di una crisi commerciale globale potrebbe rappresentare un’occasione per riequilibrare le fondamenta dell’economia continentale, riducendone la dipendenza dai mercati esteri e rafforzandone la capacità di adattamento.
L’esperienza tedesca costituisce un caso emblematico delle contraddizioni del modello attuale. La Germania, infatti, ha consolidato la propria potenza industriale attraverso un compromesso basato su moderazione salariale, alta produttività e specializzazione in beni a elevato valore aggiunto, quali macchinari, automobili e prodotti chimici. Le riforme Hartz, introdotte nei primi anni duemila, hanno reso il mercato del lavoro più flessibile, comprimendo i redditi e accrescendo la competitività dell’industria nazionale. L’adozione dell’euro ha ulteriormente rafforzato questa dinamica, eliminando la possibilità di svalutazioni competitive e trasformando la compressione salariale in un drammatico strumento di riequilibrio. Di conseguenza, la crescita economica si è affidata quasi esclusivamente alla domanda estera, portando il surplus commerciale tedesco a superare i 200 miliardi di euro nel 2022.
Tuttavia, tale modello mostra oggi evidenti segni di crisi. La stagnazione salariale e la debolezza della domanda interna hanno generato una dipendenza eccessiva dalle esportazioni, esponendo il sistema produttivo alle fluttuazioni della congiuntura globale. La competizione con la Cina, l’instabilità geopolitica causata dalla guerra in Ucraina e le minacce di dazi da parte degli Stati Uniti rappresentano fattori di rischio sempre più concreti. Ad esempio, nel caso di un’imposizione generalizzata di tariffe doganali, le esportazioni tedesche potrebbero subire una contrazione significativa, con conseguenze dirette sulla produzione industriale e sull’occupazione.
Di fronte a questa prospettiva, un po’ paradossalmente, l’UE si trova nella necessità di avviare una profonda trasformazione strutturale del proprio modello di crescita. La riconversione dell’economia continentale non può limitarsi a una semplice diversificazione dei mercati di sbocco ma deve prevedere un riequilibrio tra domanda interna ed esportazioni, un rafforzamento degli investimenti pubblici e una maggiore integrazione delle politiche industriali. L’esperienza della crisi finanziaria del 2008 e della pandemia di COVID-19 ha dimostrato come gli shock esterni possano fungere da catalizzatori per riforme altrimenti impopolari. Tuttavia, fino a oggi, tali trasformazioni hanno spesso comportato misure penalizzanti per i cittadini, traducendosi in tagli alla spesa pubblica, precarizzazione del lavoro e compressione dei salari in nome della stabilità economica. Questa volta, però, la necessità di un cambiamento potrebbe essere sfruttata per orientare le riforme verso l’interesse collettivo, invertendo la logica che ha dominato gli ultimi decenni. Un nuovo approccio, basato sull’aumento dei redditi, sugli investimenti pubblici e su una politica industriale più autonoma, consentirebbe di rafforzare la domanda interna e migliorare le condizioni di vita, rendendo l’Europa meno vulnerabile alle turbolenze globali. Per una volta, la trasformazione economica potrebbe non essere un sacrificio imposto ai cittadini, ma un’opportunità per costruire un modello di sviluppo più equo e sostenibile.
In questo contesto, è imprescindibile adottare un nuovo approccio alle politiche salariali e industriali. Un incremento dei salari reali consentirebbe di rafforzare la domanda interna e ridurre la dipendenza dai mercati esteri, favorendo una crescita più equilibrata e sostenibile. Parallelamente, un rilancio degli investimenti pubblici, permetterebbe di accrescere la competitività del tessuto produttivo senza ricorrere esclusivamente alla moderazione salariale. Tuttavia, un cambiamento di tale portata richiede una revisione delle regole fiscali europee, superando i vincoli imposti dal Patto di Stabilità e garantendo una maggiore flessibilità nell’utilizzo del deficit per finanziare progetti di sviluppo.
La principale resistenza a questa trasformazione proviene dall’ortodossia economica tedesca, ancora saldamente ancorata al principio del rigore fiscale e alla paura dell’inflazione. La memoria storica dell’iperinflazione degli anni Venti e delle crisi degli anni Settanta continua a influenzare la politica economica della Germania, ostacolando una revisione del quadro normativo europeo. Inoltre, permangono profonde divergenze tra i Paesi membri: mentre l’Italia e la Spagna necessitano di maggiori margini di manovra fiscale per rilanciare la crescita, nazioni come Olanda e Austria condividono l’approccio tedesco, rendendo difficile un accordo politico su una strategia comune. Senza una leadership in grado di guidare questo processo, l’Europa rischia di rimanere intrappolata in un immobilismo che ne comprometterebbe la competitività globale.
La scelta tra stagnazione e riforma non è più rinviabile. L’Europa deve decidere se restare ancorata a un modello ormai insostenibile, che ha accentuato le disuguaglianze e reso i Paesi membri vulnerabili alle crisi globali, o se abbracciare un nuovo paradigma di crescita. La possibilità di una crisi commerciale globale, se affrontata con una visione strategica, potrebbe trasformarsi in un’occasione per ripensare le fondamenta del progetto europeo, orientandolo verso un modello più equo, dinamico e autonomo dalle imposizioni di matrice neoliberista che hanno dominato gli ultimi decenni.
Ciò richiede un nuovo patto sociale e industriale che superi le attuali rigidità fiscali e monetarie e riconosca i salari, gli investimenti pubblici e una rinnovata politica industriale come leve fondamentali per uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Un vero e proprio New Deal di classe a livello europeo, ispirato al principio della socializzazione degli investimenti di Hyman Minsky, potrebbe costituire il punto di svolta per liberare l’Europa dalla dipendenza dai mercati esteri e dall’austerità imposta dai vincoli comunitari. Solo un massiccio piano di investimenti pubblici in infrastrutture strategiche potrebbe garantire un riequilibrio economico e sociale, sottraendo il continente alla logica del rigore contabile e restituendo agli Stati membri la possibilità di governare le proprie economie con strumenti adeguati. L’Europa deve puntare su un modello industriale basato su energie rinnovabili, efficienza energetica e riconversione sostenibile dei settori produttivi, mentre l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione devono rafforzare la competitività senza creare nuove disuguaglianze sociali.
Parallelamente, è necessario rafforzare la coesione dei sindacati su scala europea e promuovere una reale armonizzazione salariale tra i Paesi membri, riducendo le asimmetrie che hanno permesso a economie come quella tedesca di prosperare attraverso un dumping salariale a discapito di altre nazioni. Questo percorso dovrebbe essere accompagnato dalla creazione di un bilancio comune europeo di dimensioni adeguate, in grado di finanziare investimenti strutturali e garantire una politica di coesione sociale ed economica più efficace.
Un’altra riforma imprescindibile riguarda il ruolo della Banca Centrale Europea, che deve essere svincolata dai vincoli imposti dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, che attualmente le impediscono di finanziare direttamente gli Stati membri. Allo stesso tempo, occorre un ripensamento radicale dei vincoli legati al pareggio di bilancio che hanno imbrigliato per anni la capacità di spesa degli Stati, impedendo loro di attuare politiche espansive nei momenti di crisi (altro che golden rule…). Solo in questo modo sarebbe possibile avviare una stagione di crescita senza ripetere gli errori dell’austerità imposta nel decennio post-crisi finanziaria.
Ma per realizzare questo cambiamento strutturale è fondamentale ridiscutere i rapporti di forza interni all’Unione, superando l’egemonia di alcuni Stati membri che hanno imposto un modello economico funzionale ai propri interessi a discapito della crescita collettiva. L’Italia, prima dell’introduzione dell’euro, era in grado di bilanciare crescita e competitività attraverso una gestione più autonoma della politica monetaria e industriale, senza essere vincolata da regole esterne che ne limitassero la capacità di intervento. Oggi, senza strumenti adeguati, il rischio è quello di un’Europa sempre più marginale nello scenario globale, priva di una reale autonomia strategica.
Tuttavia, ogni progetto di riforma strutturale è destinato a fallire se non accompagnato da una classe politica all’altezza della sfida. Il problema più grave che ha caratterizzato l’ultimo trentennio, in particolare in Italia, è stato proprio il progressivo impoverimento qualitativo della politica, sempre più subalterna ai vincoli imposti dall’esterno e priva di una visione strategica autonoma. L’alternanza tra tecnocrazia e populismo ha svuotato il dibattito pubblico di una prospettiva realmente trasformativa, producendo governi deboli, inclini alla gestione dell’esistente piuttosto che alla costruzione del futuro. Senza una classe dirigente formata, competente e capace di anteporre l’interesse collettivo agli equilibri di corto respiro, qualsiasi ipotesi di cambiamento rischia di rimanere lettera morta. La formazione di una leadership politica adeguata non può più essere lasciata al caso o all’improvvisazione: servono percorsi strutturati, basati su una solida conoscenza delle dinamiche economiche, sociali e geopolitiche, per evitare che il destino del continente continui a essere deciso da figure prive della preparazione necessaria a gestire la complessità del presente.
Infine, è necessario ripensare la politica estera europea, che non può più essere determinata da interessi estranei a quelli del continente. Le sanzioni alla Russia, ad esempio, si sono rivelate un boomerang per i Paesi europei, soprattutto per quelli più dipendenti dal gas russo, causando un’impennata dei costi energetici che ha colpito imprese e famiglie. L’Unione Europea deve adottare una strategia più accorta e meno subordinata alle pressioni esterne, ponendo al centro la tutela degli interessi economici e industriali dei suoi cittadini.
Un’altra sfida cruciale è il contrasto alle speculazioni finanziarie, che spesso hanno destabilizzato l’economia reale senza alcun beneficio per la collettività. Politiche e azioni governative più decise, unite a una regolamentazione più stringente dei mercati finanziari, potrebbero limitare le derive speculative e indirizzare la finanza verso obiettivi socialmente utili. L’Europa non può più permettersi di lasciare che il capitale finanziario agisca senza controllo, perseguendo unicamente il profitto a breve termine a scapito della stabilità economica e del benessere diffuso.
La capacità del Vecchio Continente di reagire agli shock esterni sarà determinante nel definire il suo futuro: o si avvia un processo di trasformazione ambizioso, capace di restituire agli Stati membri la possibilità di guidare il proprio sviluppo con strumenti efficaci o si continuerà a subire le conseguenze di un modello economico ormai inadeguato alle sfide del XXI secolo.