La riforma del Patto di Stabilità e Crescita: un’analisi post-keynesiana

di A. Scorrano

La riforma del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) rappresenta l’ennesima conferma di un’impostazione economica fondata su principi neoclassici e neoliberisti che poco si adattano alle reali esigenze delle economie europee e, in particolar modo, di un paese come l’Italia. Analizzando la questione da una prospettiva post-keynesiana, il nuovo assetto normativo conferma e aggrava i limiti storici del PSC, impedendo una vera crescita economica e accentuando le fragilità strutturali dell’Eurozona.

L’origine del problema: rigidità e prociclicità delle regole fiscali

Il PSC nasce con il Trattato di Maastricht nel 1992 e viene formalizzato nel 1997 per garantire la stabilità macroeconomica dell’Eurozona. Tuttavia, i suoi criteri di riferimento – deficit pubblico al 3% del PIL e debito pubblico al 60% – si basano su presupposti arbitrari e inadeguati rispetto alle dinamiche economiche reali. L’approccio neoclassico sottostante assume che una disciplina fiscale rigida sia sufficiente a garantire stabilità e crescita, ignorando il ruolo attivo della politica fiscale come strumento di stabilizzazione e sviluppo.

Come evidenziato dall’analisi di Alaimo e Argentiero (2024), il principale difetto strutturale del PSC è l’uso prociclico delle politiche di bilancio: in fase di recessione, le restrizioni fiscali imposte dal Patto impediscono ai governi di sostenere la domanda aggregata attraverso politiche espansive, aggravando la contrazione economica. Questa impostazione è in netto contrasto con le teorie keynesiane, che evidenziano come il bilancio pubblico debba operare in funzione anticiclica, espandendosi nei periodi di crisi e contraendosi in quelli di crescita.

L’output gap e il PIL potenziale nel nuovo Patto di Stabilità

L’Unione Europea, e in particolare la Commissione Europea, ha fatto dell’output gap e del PIL potenziale i pilastri delle sue politiche economiche, incarnati nelle regole del Patto di Stabilità e Crescita. Nonostante le riforme annunciate nel nuovo Patto di Stabilità, l’approccio rimane ancorato a un’ideologia di matrice neoclassica che privilegia l’austerità e la stabilità dei conti pubblici rispetto alla crescita e alla piena occupazione.

Il nuovo Patto di Stabilità mantiene la logica di fondo: i paesi devono perseguire obiettivi di deficit strutturale aggiustati per l’output gap, con l’obiettivo di raggiungere un “equilibrio di medio termine”. Tuttavia, come evidenziato dai post-keynesiani, il PIL potenziale è un costrutto teorico che riflette scelte politiche e ipotesi ideologiche, non una realtà tecnica. La Commissione Europea calcola il PIL potenziale utilizzando modelli che incorporano il NAWRU, il tasso di disoccupazione “naturale”. Questo concetto, già di per sé discutibile, è particolarmente problematico per i paesi dell’Europa meridionale, dove il NAWRU è stimato a livelli insostenibilmente alti. Di conseguenza, il lavoro potenziale risulta artificialmente ridotto, abbassando il PIL potenziale e giustificando politiche di austerità per “allineare” la disoccupazione a un livello ritenuto “naturale”. In pratica, si tratta di una profezia che si autoavvera: l’austerità deprime la domanda, aumenta la disoccupazione e riduce il PIL potenziale, creando un circolo vizioso di stagnazione in una sorta di spirale deflattiva.

Le criticità della riforma 2023-2024

La riforma del PSC, approvata nel 2024, mantiene sostanzialmente intatti i principi fondamentali del Patto originario, con poche concessioni alla flessibilità. Sebbene preveda una maggiore personalizzazione dei percorsi di aggiustamento fiscale per i singoli stati, continua tuttavia a imporre vincoli rigidi sui livelli di deficit e debito. In particolare:

  1. la soglia del 60% per il rapporto debito/PIL rimane un criterio di riferimento, nonostante sia evidente che molti stati membri superano tale livello senza reali problemi di sostenibilità;
  2. si richiede ai paesi con un debito superiore al 90% del PIL di ridurlo dell’1% annuo, mentre per quelli con un debito tra il 60% e il 90% la riduzione deve essere dello 0,5%. Questa impostazione ignora le specificità nazionali e i contesti economici mutevoli, imponendo un aggiustamento fiscale che potrebbe risultare recessivo;
  3. il vincolo del 3% per il deficit/PIL rimane invariato, con la sola introduzione di una clausola che impone agli stati di ridurre il deficit sotto l’1,5% nelle fasi espansive, limitando ulteriormente le capacità di manovra della politica fiscale.

Questi elementi dimostrano come la riforma continui, di fatto, a riflettere un paradigma neoliberista che subordina la politica economica a criteri contabili, trascurando le esigenze reali di crescita e sviluppo.

L’illusione della sostenibilità del debito

La Commissione Europea giustifica le sue regole fiscali con l’obiettivo di garantire la sostenibilità (sic!) del debito pubblico. Nella visione post-keynesiana, invece, si sottolinea che la sostenibilità del debito non dipende solo dal rapporto debito/PIL ma anche (e tra l’altro) da una serie di fattori tra cui i tassi di interesse, la crescita economica e la capacità di uno Stato di finanziarsi nella propria moneta. Per i paesi dell’Eurozona, che non hanno il controllo della politica monetaria, questo è un problema particolarmente grave.

Le regole del Patto di Stabilità, invece di promuovere la crescita, rischiano di aggravare il problema del debito. Tagliando la spesa pubblica in fase di recessione, si deprime la crescita economica, rendendo più difficile ridurre il rapporto debito/PIL. Inoltre, l’ossessione per il deficit strutturale ignora il ruolo degli investimenti pubblici nel promuovere la crescita futura. Per i post-keynesiani, la sostenibilità del debito non si raggiunge con l’austerità, ma con politiche che stimolano la domanda e aumentano il PIL potenziale nel lungo periodo.

Verso un nuovo modello di governance economica

L’Eurozona ha bisogno di un cambiamento strutturale nella sua governance economica, capace di superare le logiche dell’austerità e di promuovere una crescita equa e sostenibile. Un’alternativa realistica potrebbe essere l’introduzione di regole che valutino la sostenibilità del debito non in base a un singolo rapporto debito/PIL, ma considerando fattori come la crescita economica, il tasso di occupazione e la capacità produttiva del paese. Solo attraverso una riforma più radicale e innovativa sarà possibile garantire una vera stabilità e crescita a lungo termine.