
di A. Scorrano
L’adozione della moneta unica europea ha generato dinamiche macroeconomiche complesse che hanno profondamente influenzato le traiettorie economiche dei paesi membri. Particolarmente significativo è il ruolo svolto dalla Germania, la cui strategia economica ha rappresentato un elemento determinante nella configurazione degli squilibri strutturali che caratterizzano l’architettura dell’Eurozona. Di seguito un’analisi critica delle politiche salariali tedesche che mettono in evidenza come queste abbiano contribuito alla creazione e al mantenimento di asimmetrie fondamentali all’interno dell’unione monetaria.
La svalutazione interna come strategia competitiva
La Germania ha perseguito, particolarmente a partire dai primi anni 2000, una politica di moderazione salariale che può essere interpretata come una forma di svalutazione competitiva interna. In un contesto di unione monetaria, dove la svalutazione nominale del tasso di cambio non è più disponibile come strumento di politica economica nazionale, la Germania ha effettivamente sostituito tale meccanismo con una compressione sistematica della dinamica salariale rispetto alla crescita della produttività.
Questa strategia ha implicato il mantenimento di incrementi salariali nominali significativamente inferiori rispetto agli aumenti di produttività, determinando una progressiva riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto (ULC). Tale divergenza ha conferito alle imprese tedesche un vantaggio competitivo sostanziale nei confronti dei partner europei, dove invece i salari crescevano in linea o al di sopra della produttività[1].
La dinamica descritta rappresenta un esempio di quello che Kalecki definirebbe un processo redistributivo a favore dei profitti e a discapito dei salari, con profonde implicazioni per la distribuzione funzionale del reddito. Secondo la visione kaleckiana, questo processo si manifesta attraverso l’aumento del mark-up sui costi unitari del lavoro, il rafforzamento del grado di monopolio delle imprese tedesche nei mercati europei e la conseguente compressione della quota salariale sul reddito nazionale. Tale politica altera sistematicamente i rapporti di forza tra capitale e lavoro, facilitando l’accumulazione capitalistica e riflettendo un indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, elementi centrali nell’analisi del conflitto distributivo nella teoria dell’economista polacco[2].
Nel periodo tra il 1998 e il 2006, la crescita delle retribuzioni lorde reali nell’industria manifatturiera tedesca è stata notevolmente modesta rispetto ad altri paesi europei, confermando empiricamente l’esistenza di una politica deliberata di moderazione salariale come fondamento per la competitività delle esportazioni tedesche[3].
Il contenimento della dinamica salariale tedesca non può essere dissociato dalle riforme Hartz implementate tra il 2003 e il 2005, che hanno radicalmente trasformato il mercato del lavoro tedesco attraverso una progressiva flessibilizzazione e precarizzazione dei rapporti lavorativi. Queste riforme hanno determinato un indebolimento strutturale del potere contrattuale dei lavoratori, facilitando la compressione della quota salari sul PIL e contribuendo a un’alterazione fondamentale del compromesso sociale precedentemente esistente.
Gli squilibri commerciali come conseguenza strutturale
La moderazione salariale tedesca ha prodotto conseguenze macroeconomiche prevedibili. La compressione della domanda interna derivante dal contenimento salariale è stata compensata da una crescente dipendenza dalle esportazioni, configurando un modello di crescita export-led che ha portato la Germania ad accumulare surplus commerciali di dimensioni straordinarie, stabilmente superiori al 7% del PIL negli anni pre-pandemia.
Questo fenomeno è spesso descritto come l’affermazione di un modello neo-mercantilista, caratterizzato dalla crescita della forza produttiva del lavoro, prezzi stabili e bilanci statali sotto controllo, che ha permesso alla Germania e ai suoi “satelliti” economici di godere di esportazioni nette significative, prevalentemente dirette verso i paesi del Sud Europa[4].
I dati prodotti da diversi studi accademici[5] confermano e offrono una chiara evidenza empirica dell’ampliamento dei surplus delle partite correnti della Germania e dei corrispondenti deficit dei paesi del Sud Europa (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia), con una sincronizzazione temporale che coincide precisamente con gli anni della formazione dell’Unione Monetaria.
Questa strategia, mentre garantiva alla Germania una posizione di creditore netto nei confronti del resto dell’Eurozona, ha simultaneamente contribuito alla creazione di deficit commerciali persistenti nei paesi periferici. Si è così instaurato un circuito macroeconomico di squilibri strutturali in cui i deficit delle economie del Sud Europa venivano finanziati attraverso flussi di capitale dal Nord, generando un processo di accumulazione di debito estero per i paesi deficitari che si è rivelato insostenibile nel lungo periodo.
Inoltre i paesi periferici, caratterizzati da una minore crescita della produttività e da costi relativi in aumento, hanno avuto tendenze ad accumulare più facilmente disavanzi con l’estero, creando così un circolo vizioso di dipendenza finanziaria e vulnerabilità economica strutturale che l’architettura dell’Eurozona non era attrezzata per affrontare.
L’asimmetria degli aggiustamenti e la fallacia della composizione
Un elemento particolarmente problematico della configurazione macroeconomica dell’Eurozona risiede nell’asimmetria fondamentale dei processi di aggiustamento. In un sistema economico interdipendente come l’unione monetaria europea, la responsabilità dell’aggiustamento degli squilibri dovrebbe ricadere tanto sui paesi in surplus quanto su quelli in deficit. Tuttavia, l’architettura istituzionale dell’Eurozona ha sistematicamente imposto l’onere dell’aggiustamento esclusivamente sui paesi deficitari, attraverso politiche di austerità fiscale e svalutazione interna.
Questa configurazione asimmetrica riflette una profonda incomprensione della natura interconnessa delle economie moderne. La Germania, mantenendo ostinatamente il proprio modello export-led e rifiutando di stimolare la domanda interna, ha contribuito a quella che Keynes definirebbe una “fallacia di composizione” a livello europeo: ciò che potrebbe apparire razionale dal punto di vista di un singolo paese diventa controproducente quando tutti tentano di perseguire simultaneamente la stessa strategia.
La persistenza nel mantenere elevati surplus commerciali, ben oltre i limiti previsti dalle stesse regole della Procedura per gli Squilibri Macroeconomici dell’UE, ha impedito un aggiustamento simmetrico. Mentre ai paesi in deficit veniva richiesto di implementare dolorose politiche di austerità, la Germania continuava ad accumulare surplus senza affrontare pressioni equivalenti per stimolare la propria domanda interna attraverso politiche salariali più espansive o investimenti pubblici più consistenti.
Le conseguenze sistemiche per l’Eurozona
La compressione della domanda interna tedesca ha privato gli altri paesi europei di un potenziale mercato di sbocco per le proprie esportazioni, contribuendo a una dinamica di crescita complessivamente depressa per l’intera regione. Questo fenomeno riflette perfettamente l’analisi keynesiana della domanda effettiva: la compressione salariale tedesca, riducendo la capacità di assorbimento dell’economia più grande d’Europa, ha generato un effetto deflazionistico sistemico.
Il modello neo-mercantilista del Centro-Nord Europa ha di fatto spaccato l’Europa dal punto di vista della bilancia di conto corrente con l’estero, con l’area dell’euro divenuta luogo primario di sbocco delle esportazioni nette tedesche. Questa frattura strutturale ha creato una dipendenza asimmetrica. Infatti, mentre la Germania diventava sempre più dipendente dalle esportazioni per la propria crescita, i paesi periferici si trovavano intrappolati in un circolo vizioso di indebitamento estero e crescente vulnerabilità finanziaria.
Inoltre, la combinazione di politiche fiscali restrittive e moderazione salariale ha contribuito a mantenere l’inflazione sistematicamente al di sotto dell’obiettivo della BCE per lunghi periodi, rischiando di spingere l’Eurozona in una trappola deflazionistica che ha richiesto interventi monetari sempre più aggressivi. La politica monetaria ultra-accomodante della BCE negli ultimi anni può essere interpretata, in questa prospettiva, come un tentativo di compensare l’insufficienza strutturale della domanda aggregata risultante dalle politiche salariali restrittive.
Vulnerabilità strutturali
Il modello economico tedesco, basato sulla compressione salariale e sull’accumulazione di surplus commerciali, presenta vulnerabilità intrinseche che sono diventate sempre più evidenti negli ultimi anni. La dipendenza dalle esportazioni rende l’economia tedesca particolarmente esposta agli shock esterni, come dimostrato dalla recente crisi energetica. Inoltre, la progressiva erosione della domanda interna ha contribuito a un deterioramento del capitale fisico e sociale, con investimenti pubblici cronicamente insufficienti nelle infrastrutture, nell’istruzione e nell’innovazione.
Recentemente, la Germania ha iniziato a sperimentare pressioni per incrementi salariali più sostanziali, alimentate da una crescente scarsità di manodopera e dall’accelerazione inflazionistica post 2022. Tuttavia, questi aggiustamenti tardivi difficilmente potranno compensare i profondi squilibri accumulati nel corso di due decenni[6].
La moderazione salariale tedesca, lungi dall’essere un modello virtuoso da emulare, ha rappresentato una forma di mercantilismo moderno incompatibile con il funzionamento equilibrato di un’unione monetaria.
La persistenza di questi squilibri mette in luce le contraddizioni fondamentali dell’architettura dell’Eurozona: un’unione monetaria senza adeguati meccanismi di aggiustamento fiscale e salariale è intrinsecamente instabile. Senza un ripensamento radicale del regime di governance economica europea, che riconosca l’importanza dei salari non solo come costo di produzione ma anche come fonte fondamentale di domanda aggregata, l’Eurozona continuerà a oscillare tra crisi ricorrenti e stagnazione cronica.
In un’economia monetaria di produzione, la distribuzione del reddito tra salari e profitti non è neutrale rispetto alle dinamiche di crescita e stabilità. Una convergenza verso l’alto delle condizioni salariali, piuttosto che una competizione al ribasso, rappresenterebbe, certamente, una strada economicamente e socialmente più promettente.
Note:
[1] Dustmann, C., Fitzenberger, B., Schönberg, U., & Spitz-Oener, A. (2014). From Sick Man of Europe to Economic Superstar: Germany’s Resurgent Economy. Journal of Economic Perspectives, 28(1), 167-188. DOI: 10.1257/jep.28.1.167
[2] Kalecki, M. (1954) “Theory of Economic Dynamics: An Essay on Cyclical and Long-Run Changes in Capitalist Economy”, London: Allen & Unwin. Opera fondamentale in cui Kalecki sviluppa la sua teoria della distribuzione del reddito basata sul grado di monopolio e presenta il concetto di mark-up sui costi unitari del lavoro come determinante della quota di profitti. Kalecki, M. (1971) “Selected Essays on the Dynamics of the Capitalist Economy 1933-1970”, Cambridge University Press. Raccolta di saggi che includono “The Determinants of Profits” e “Class Struggle and the Distribution of National Income”, dove Kalecki analizza in dettaglio il conflitto distributivo tra capitale e lavoro e la sua relazione con il ciclo economico.
[3] Deficit commerciale, crisi di bilancio e politica deflazionista (Brancaccio, Studi economici, n. 96; 2008/3)
[4] L’eccezione esemplare: il caso italiano nella crisi globale ed europea (Bellofiore, 2013).
[5] Cesaratto, S. e Stirati, A. (2010) “Germany and the European and Global Crises”, International Journal of Political Economy, Vol. 39, No. 4, pp. 56-86. Analizza come le politiche di moderazione salariale tedesche abbiano contribuito agli squilibri commerciali intra-eurozona. Chen, R., Milesi-Ferretti, G.M. e Tressel, T. (2013) “External Imbalances in the Eurozone”, Economic Policy, Vol. 28, No. 73, pp. 101-142. Documento influente che esamina le cause strutturali degli squilibri delle partite correnti nell’eurozona. Storm, S. e Naastepad, C.W.M. (2015) “Crisis and Recovery in the German Economy: The Real Lessons”, Structural Change and Economic Dynamics, Vol. 32, pp. 11-24. Analisi critica del modello tedesco e suoi effetti sui paesi periferici. Stockhammer, E. (2016) “Neoliberal Growth Models, Monetary Union and the Euro Crisis”, New Political Economy, Vol. 21, No. 4, pp. 365-379. Collega le politiche neoliberiste al crescente divario tra core e periferia dell’eurozona. Simonazzi, A., Ginzburg, A. e Nocella, G. (2013) “Economic Relations between Germany and Southern Europe”, Cambridge Journal of Economics, Vol. 37, No. 3, pp. 653-675. Esplora le asimmetrie commerciali tra Germania e Europa meridionale. Bofinger, P. (2015) “German Wage Moderation and the EZ Crisis”, VoxEU, 30 Novembre. Dimostra empiricamente come la moderazione salariale tedesca abbia amplificato gli squilibri commerciali. Flassbeck, H. e Lapavitsas, C. (2013) “The Systemic Crisis of the Euro – True Causes and Effective Therapies”, Rosa Luxemburg Stiftung. Studia la correlazione temporale tra l’introduzione dell’euro e la divergenza nelle bilance commerciali. Belke, A. e Dreger, C. (2013) “Current Account Imbalances in the Euro Area: Does Catching Up Explain the Development?”, Review of International Economics, Vol. 21, No. 1, pp. 6-17. Analizza i fattori strutturali degli squilibri di conto corrente nell’eurozona.
[6] La Germania sta affrontando crescenti pressioni salariali legate a squilibri strutturali e congiunturali. La carenza di manodopera, dovuta all’invecchiamento demografico (solo 1,53 figli per donna nel 2022, Destatis) e alla bassa disoccupazione (3% nel 2023), ha lasciato oltre 800.000 posti vacanti, soprattutto in settori chiave come sanità e tecnologia. L’inflazione post-pandemica, che ha toccato l’8,7% nel 2022 (Eurostat), ha eroso i salari reali (-3,1% nel 2022, Destatis), spingendo sindacati a ottenere aumenti significativi (+8% nel metalmeccanico nel 2024, IG Metall). Tuttavia, questi aggiustamenti compensano solo parzialmente due decenni di stagnazione salariale (+0,5% annuo reale nel 2000-2020, OECD), frutto di un modello basato su moderazione salariale ed export.