Il rapporto Draghi: un’illusione di progresso in un’Europa strutturalmente inadeguata

Di Aldo Scorrano

Il recente “Rapporto Draghi” sulla competitività europea si presenta come un piano rivoluzionario per rilanciare l’economia dell’Unione Europea. Tuttavia, un’analisi approfondita rivela che, nonostante la sua retorica ambiziosa, il documento rimane profondamente radicato nei paradigmi economici neoliberali che hanno dominato il pensiero europeo negli ultimi decenni, offrendo più una riaffermazione dello status quo che una vera e propria trasformazione economica.
Il fulcro del rapporto è la proposta di mobilitare circa 800 miliardi di euro annui per investimenti strategici. Questa cifra, apparentemente imponente, maschera tuttavia un approccio al finanziamento che riflette una continuità sorprendente con le politiche economiche tradizionali dell’UE.
Il rapporto si affida principalmente a meccanismi come l’emissione di debito comune, la riforma del bilancio UE e, significativamente, la mobilitazione di capitale privato che, dal mio punto di vista, mette in luce le note debolezze strutturali dell’Unione Europea, nonostante una parvenza di cambiamento (peraltro politicamente inattuabile).
Il rapporto, pur presentandosi come un piano ambizioso per il rilancio dell’economia europea, rivela una sorprendente mancanza di proposte per riforme istituzionali fondamentali. Si concentra principalmente su riforme e iniziative che possono essere attuate all’interno dell’attuale quadro istituzionale e legale dell’UE. Non vi sono proposte dirette per modificare i trattati fondamentali dell’Unione, né si suggeriscono cambiamenti allo statuto della BCE. Anche per quanto riguarda il Patto di Stabilità e Crescita, nonostante il rapporto menzioni la necessità di investimenti significativi, non propone una revisione esplicita di questo fondamentale strumento di governance fiscale.
Le proposte di governance economica sembrano essere più orientate verso un miglioramento dell’implementazione delle politiche esistenti piuttosto che verso un cambiamento fondamentale del framework europeo. Anche l’idea di emettere debito comune, seppur innovativa, non implica necessariamente una modifica dei trattati, potendo essere implementata attraverso accordi intergovernativi come è stato fatto per Next Generation EU.
Senza affrontare le questioni strutturali alla base dell’architettura economica e monetaria dell’UE, le proposte del rapporto rischiano di essere demagogicamente limitate nella loro efficacia. La scelta di operare all’interno dei confini istituzionali esistenti riflette una cautela che potrebbe essere vista come eccessiva in un momento in cui l’economia europea richiede soluzioni audaci e trasformative. Questa approccio conservativo limita la capacità del rapporto di proporre soluzioni veramente innovative per affrontare le sfide strutturali dell’UE, come la divergenza economica tra gli Stati membri, le limitazioni della politica monetaria in un’unione monetaria incompleta e la rigidità dei vincoli fiscali che hanno spesso ostacolato la crescita e gli investimenti.
Particolarmente rilevante, a proposito del capitolo sul finanziamento degli investimenti, è l’assenza di un ruolo significativo per la Banca Centrale Europea: in un’epoca in cui le banche centrali di tutto il mondo stanno ripensando il loro ruolo nell’economia, questa omissione appare come un’opportunità mancata per esplorare strategie di finanziamento più innovative e potenzialmente trasformative. È inutile sottolineare “cose note” riguardo al potenziale di una banca centrale (“cose” che Mario Draghi conosce perfettamente!).
Sulla proposta di emissione di debito comune, seppur presentata come un passo avanti, essa rischia di incontrare resistenze politiche significative, in particolare da parte di paesi come la Germania. Questo aspetto mette in luce le profonde divisioni che persistono (ancora) all’interno dell’UE e l’illusorietà del concetto di solidarietà europea, spesso invocato ma raramente messo in pratica.

Il documento appare incardinato in una visione non dissimile da quella che ha caratterizzato l’UE negli ultimi decenni, con tutte le sue problematiche legate ai vincoli fiscali e monetari. Questa aderenza ai paradigmi esistenti si manifesta in particolare nella ricerca spasmodica della competitività, un mantra che ha caratterizzato le politiche economiche dell’eurozona con risultati discutibili. La storia recente dell’euro ha dimostrato come questa enfasi sulla competitività si sia spesso tradotta in una deflazione del lavoro e salariale, contribuendo a esacerbare le disuguaglianze economiche all’interno dell’Unione. Il rapporto, pur riconoscendo alcune di queste problematiche, non riesce a proporre un vero e proprio ripensamento di questo modello economico. Particolarmente problematica è la proposta di una ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro. Questa idea, derivante direttamente dal pensiero economico neoliberista, rischia di compromettere ulteriormente la sicurezza economica dei lavoratori europei, già messa a dura prova da decenni di politiche simili. L’assunzione implicita che una maggiore flessibilità del lavoro porti automaticamente a una maggiore produttività è discutibile e non tiene conto dei potenziali costi sociali ed economici a lungo termine. Questa proposta sembra ignorare le crescenti evidenze che suggeriscono come la precarietà lavorativa possa in realtà deprimere la produttività e l’innovazione. Per quanto riguarda la produttività, il rapporto sembra considerarla come un fattore esogeno che può essere stimolato attraverso riforme strutturali e incentivi di mercato. Questa visione contrasta nettamente con approcci economici alternativi, come quello basato sulla legge di Kaldor-Verdoorn, che suggeriscono come la produttività sia intrinsecamente legata alla domanda effettiva. In questa prospettiva, politiche volte a stimolare la domanda aggregata, come investimenti pubblici su larga scala, potrebbero essere molto più efficaci nel promuovere la crescita della produttività rispetto alle riforme orientate al mercato proposte nel rapporto. L’incapacità di riconoscere questa dinamica rivela una comprensione limitata delle complesse interazioni tra domanda, investimenti e produttività nell’economia moderna. Il rapporto, inoltre, sembra trascurare l’importanza di affrontare le disuguaglianze economiche crescenti all’interno dell’UE. La sua enfasi sulla competitività e sulla crescita aggregata rischia di perpetuare, se non esacerbare, queste disparità. Un approccio più olistico alla politica economica dovrebbe considerare esplicitamente come le strategie proposte influenzerebbero la distribuzione del reddito e della ricchezza all’interno delle società europee.

L’insistenza su questo approccio, nonostante le chiare difficoltà politiche, mette in luce la continua ricerca della competitività come chiave di volta della politica europea.
Ciò che ancora non appare chiaro è che, stante l’attuale assetto capitalistico dei vari stati europei, la competizione intra-statale dentro l’Europa è un dato di fatto insuperabile che rende vane e inutili ogni tipo di riforme, peraltro di superficie come quelle pensate da Mario Draghi.