di Fabio Di Lenola
Possiamo definire la produttività come il rapporto tra l’output (prodotti effettivamente realizzati) e gli occupati totali (meglio ancora se consideriamo le ore totali lavorate).
Se a parità di ore lavorate (o addirittura con meno ore lavorate), l’offerta di prodotti aumenta (ipotizzando che tutti i costi di produzione restino invariati), possiamo immaginare che il prezzo finale di tali beni scenda, rendendoli più convenienti e aumentando le vendite degli stessi.
Come ha fatto giustamente notare l’economista Guglielmo Forges Davanzati, su un articolo apparso tempo fa su Micromega online, la questione della produttività non è affatto cosi scontata come sembra, in particolar modo per quel che riguarda la sua misurazione:
“L’impossibilità di misurazione (della produttività) discende da due dati di fatto. In primo luogo, la quantità prodotta dipende dalle modalità di organizzazione del lavoro e, in particolare, dal fatto che, di norma, essa varia al variare del grado di cooperazione fra lavoratori all’interno del processo produttivo.
In secondo luogo, le economie contemporanee sono caratterizzate da una rilevante incidenza del settore dei servizi, nel quale la quantità prodotta non è misurabile, se non quando i servizi vengono venduti e, dunque, può esserlo solo in termini monetari. In terzo luogo, è praticamente impossibile ‘isolare’ il contributo del singolo lavoratore dalla dotazione di capitale della quale dispone, così che non è possibile imputare al singolo lavoratore il suo specifico contributo alla produzione. Da ciò discende che, per entrambi i casi, non è possibile fornire una misurazione fisica della sua produttività.”
La seconda evidenza che vorremmo sottolineare è se aumentare la produttività, per aumentare la quantità di prodotti da offrire sul mercato, sia una scelta logica oppure derivi da concezioni meccaniche dell’economia e sorpassate. Il riferimento è alla legge di Say, che descrive un mondo in cui l’offerta traina la domanda. Aumentare la quantità di prodotti è sempre sinonimo di garanzia di vendita, secondo questo postulato.
Ci permettiamo di dissentire.
Dal nostro punto di vista, la produttività dipende dalla domanda di beni e servizi, e non potrebbe che essere cosi. Citando il prof. Alberto Bagnai, per un barista è importante vendere più caffè possibili, non produrne il più possibile!
Diventa scontato quindi, che l’incentivo ad investire da parte del barista, per migliorare il processo produttivo attraverso tecnologia e nuove tecniche di lavoro (esempio generalizzabile per la classe imprenditoriale), non può che venire da una maggiore domanda di caffè. Solo e soltanto in quel momento l’impresa (a fronte di probabili aumenti di vendite nel breve e medio periodo) si assumerà il rischio di investire denaro per ammodernare la sua catena produttiva. La situazione italiana ed europea non pare al momento prefigurare una situazione in cui la domanda aggregata torni ad essere il motore dello sviluppo e della produzione.
Per quel che riguarda gli eventuali vantaggi che deriverebbero dal calo dei prezzi, determinato dall’aumento della produttività, i problemi da rilevare sono almeno tre.
- In primo luogo, il capitalismo utopico di Adam Smith, in cui opererebbe la mano invisibile del mercato, non descrive l’attuale società odierna, in cui classi con interessi contrapposti si affrontano quotidianamente. I prezzi dunque non sono riconducibili a semplici variazioni dei livelli di domanda ed offerta , ma dipenderebbero fondamentalmente dal costo del lavoro e delle materie prime. Il libero mercato utopico di Smith e dei liberisti nostrani in salsa neoclassica, non esiste, e la società è dominata da cartelli e da monopoli , non perché lo stato e la burocrazia interferiscano nelle “naturali leggi del mercato” (autoregolanti) , ma esattamente perché la dinamica stessa delle società capitalistiche rende l’uomo (inteso come soggetto ontologico) alienato, distrugge i legami sociali e il senso comunitario del vivere. Effettuata questa premessa è chiaro che ritenere che all’aumento della produttività i capitalisti (intesi come classe dominante) decidano di abbassare i prezzi appare piuttosto ingenuo. La realtà potrebbe essere un profitto crescente, piuttosto che un prezzo in discesa.
- Il secondo punto che ci preme sottolineare è far notare che se l’imprenditore decidesse di investire, i benefici sui prezzi non potrebbero che verificarsi nel lungo periodo, dato che nel breve periodo l’impresa vedrebbe maggiorati i suoi costi, causa l’investimento effettuato.
- Il terzo punto da mettere in evidenza è se realmente la domanda , specialmente in periodi di depressione (come il periodo che stiamo vivendo), sia più o meno elastica a variazioni del prezzo. L’evidenza empirica ci dice di no.
E l’evidenza è sotto i nostri occhi visto che l’Europa è avvitata in una spirale deflazionistica (calo dei prezzi), ma la domanda di beni e servizi continua drammaticamente a calare.
Possiamo concludere che il rapporto tra domanda e prezzi è molto flebile, e tende ancora a diminuire in periodi in cui l’economia nazionale è particolarmente depressa.
In questo momento neppure il settore estero ci può venire in soccorso, data la recessione che abita nella maggior parte dei paesi europei, e data la miope strategia europea che mira al consolidamento fiscale e al taglio degli stipendi su scala continentale.
Per maggiori approfondimenti sul tema rimandiamo al testo del prof. Emiliano Brancaccio, l’Anti Blanchard 2012.
L’ultimo argomento che andremo a disquisire rimanda a Marx ed alla sua teoria sulla caduta tendenziale del saggio del profitto come contraddizione interna al sistema capitalista.
Non crediamo che questa teorizzazione di Marx porti necessariamente al collasso del sistema, ma vorremmo analizzare questa formulazione per far risaltare alcune problematiche che si innescherebbero nel processo produttivo.
Un aumento degli investimenti in capitale fisso (macchinari e tecnologie), tende a modificare la composizione del capitale, diminuendo la quota del capitale variabile (salari).
Questo processo tende naturalmente ad espellere sempre maggiore forza lavoro dal processo produttivo e non è ben chiaro chi dovrebbe riassorbirla.
Il processo potrebbe essere alleviato riducendo l’orario di lavoro mantenendo stabile il potere d’acquisti e la disoccupazione potrebbe essere assorbita lanciando un piano di lavoro garantito per impiegare la forza lavoro nel settore dei servizi, nella cultura, nelle energie rinnovabili e nella cura dell’uomo.
Ma questo è un tema che ci riserviamo di trattare in seguito.
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Articolo già pubblicato su Comedonchisciotte.org