di A. Scorrano, V. Spositi, F. Di Lenola
Tutto si potrebbe dire dell’epoca in cui viviamo, quella del monoteismo del mercato e del capitalismo totalitario, tranne che essa sia un’epoca greca, filosoficamente e, in parte, economicamente parlando.
Travisando completamente ciò che scrisse il filosofo della Grecia antica Epicuro, viviamo nell’epoca dell’Epicureismo, dove il concetto di Epicurèo sta per smisurato, illimitato.
Il Capitalismo, in sé, potrebbe essere definito come sistema epicurèo, ovvero volto semplicemente alla crescita smisurata del valore (la valorizzazione del valore, avrebbe detto Marx) a scapito della dignità umana e dell’ecosistema nel quale viviamo la nostra esistenza.
La parola “Economia” nasce dal trattato educativo di Senofonte riguardante la gestione efficiente nonché la leadership: Oeconomicus
Nell’epoca dello sviluppo del pensiero economico dell’antica Grecia, l’economia era di natura pre-mercatistica, nel senso che i prodotti non erano né uniformi né commerciati in scambi organizzati.
L’Economia, per i pensatori dell’antica Grecia, era essenzialmente la gestione della casa, o della comunità; era l’efficienza economica e l’arte dell’amministrazione.
Già qui possiamo notare una abissale differenza tra la definizione di Economia nell’antica Grecia e nella società contemporanea: in quest’ultima è molto più appropriato parlare di Crematistica, ovvero la ricerca dell’arricchimento fine a se stesso, il quale conduce alla dissoluzione della comunità.
Il pensiero economico di questi antichi pensatori si fondava su un antropocentrismo dove, appunto, l’uomo era al centro di tutto; filosofia contrapposta ad un meccanicismo economico riscontrabile nella società capitalistica odierna.
È curioso inoltre notare come gli antichi greci perseguissero, seguendo la logica antropocentrica, la felicità umana, intesa come fine ultimo del processo di auto-regolamentazione dell’individuo; fine che potremmo dire essere in radicale contrasto con l’attuale visione di homo economicus, volto invece alla massimizzazione della sua utilità e del suo benessere individualistico.
Oltre agli odierni ben noti concetti di efficienza, allocazione delle risorse, calcolo edonico, anche il concetto di divisione del lavoro (nei secoli a venire sviluppato dal filosofo morale Adam Smith) può essere riscontrato nel pensiero economico dell’antica Grecia, specialmente in Senofonte.
Questo pensatore estese la sua analisi riguardante la divisone del lavoro alla relazione che intercorre tra una popolazione concentrata e lo sviluppo di capacità specializzate.
Nuovamente troviamo negli antichi pensatori economici greci una radice di quella che sarà, nei secoli a venire, la moderna scienza economica, ovvero il concetto di specializzazione e di divisione del lavoro come funzione della dimensione del mercato (Smith).
Per Senofonte, quindi, l’attività economica era volta alla soddisfazione dei bisogni umani e dell’eliminazione dello sconforto nell’anima umana, assunti che vennero a formare la teoria dell’edonismo, tipica della coscienza greca antica.
Ma, direbbe Epicuro, l’edone non è il godimento illimitato e sfrenato, bensì limitato.
Il pensiero greco, in ogni sua sfaccettatura, è un pensiero del limite, della giusta misura o, parafrasando Epicuro, del “metriotes”.
Si scorge immediatamente, quindi, una profonda differenza con la società capitalistica, la società del consumo (di cui fu profeta Pier Paolo Pasolini nel 1974), riassumibile non più nella locuzione di Cartesio “Cogito Ergo Sum” ma in “Consumo Ergo Sum”.
Capitalismo che può essere descritto come metafisica dell’illimitatezza (Fusaro) e dell’onni-mercificazione.
Tornando al concetto di specializzazione di cui, come abbiamo visto, fu precursore Senofonte, Platone la identifica come origine della città, la quale è la risposta ai bisogni umani.
Specializzazione e divisione del lavoro garantiscono, per Platone, la stabilità e l’efficienza economica.
La città, da un punto di vista strettamente economico, è per Platone un mercato relativamente ampio per dar sbocco allo scambio di beni e servizi, i quali sono distribuiti attraverso il mercato.
Come tipico del pensiero economico dell’antica Grecia, Platone non considerava il mercato capace di auto-regolamentazione: il mercato, così come lo Stato, richiede un controllo amministrativo.
E quali gli strumenti indicati da Platone volti a tale scopo?
Uno di essi fu la valuta fiat (una moneta che deriva il suo valore dall’autorità del governo e dalla legge), la quale doveva avere la funzione di eliminare il profitto e l’usura al fine di far trionfare le leggi di giustizia.
La valuta fiat è l’attuale tipologia di valuta esistente oggi, ovvero una valuta basata sulle seguenti caratteristiche:
– è la valuta dello Stato, di cui esso è monopolista
– ha un tasso di cambio flessibile
– non è agganciata ad alcuna altra valuta o commodity
L’intuizione di Platone dell’utilizzo di una valuta fiat al fine di amministrare una comunità è quantomeno illuminante in un’epoca in cui, da almeno 30 anni, lo Stato ed il suo potere di emissione di valuta sono stati ferocemente osteggiati dalla rivoluzione neo-liberista.
La filosofia ed il pensiero economico dell’antica Grecia trovano anche in Aristotele uno dei suoi massimi esponenti.
Nella sua teoria dello scambio bi-partitico, Aristotele pone alla base dello scambio il concetto di reciprocità, ovvero quando entrambe le parti sono disposte a cedere un loro surplus in cambio dei beni di un altro.
Contrariamente allo scambio di mercato, nello scambio isolato (tipico dell’esperienza aristotelica) non c’è nessun prezzo di mercato come risultato finale dell’operare imparziale dei diversi agenti economici coinvolti in esso. Lo scambio isolato è definibile come quello in cui due parti scambiano beni a seconda delle loro preferenze soggettive, senza riferimento alcuno a qualsiasi altra opportunità di mercato alternativa.
Lo scambio quindi, per Aristotele, era volto al soddisfacimento dei bisogni (naturali) degli individui e collettivi, mentre egli non approvava lo scambio volto alla mera accumulazione di ricchezza personale, poiché non essendo quest’ultima vincolata a nessun limite (nuovamente ritorna il concetto di “metriotes”, di giusta misura), essa poteva condurre all’impoverimento della collettività in favore del profitto di pochi.
Un Aristotele illuminante qui, quasi un pre-veggente della barbarie capitalistica contemporanea, in cui il Capitale agisce indisturbato nel mentre consacra il suo totalitarismo a scapito della collettività.
Nonostante il pensiero economico greco sia stato alla base degli assunti fondanti l’economia marginalista alla fine del XIX sec., gli antichi greci hanno ancora molto da insegnarci.
Riscoprire il concetto di comunità, opposto a quell’«atomismo delle solitudini», parafrasando Hegel, caratterizzante la società capitalistica, è un primo passo da compiere al fine di edificare una società a misura d’uomo.
L’etica del limite greca, in un mondo capitalistico, cioè della metafisica dell’illimitatezza, del sempre di più, è quantomeno illuminante per riscoprire quella giusta misura su cui basare la nostra esistenza.
Un “metriotes”, per dirla con Epicuro, che potrebbe evitare il ripetersi di quelle “tragedie dell’etico” di Hegeliana memoria che il capitalismo, quotidianamente, manifesta.
Capitalismo e MMT: una convivenza possibile?
«La cosa migliore della MMT è di far sì che la gente capisca
che il governo non ha limiti finanziari, togliendo pertanto ad essi la scusa di fondo
del non agire in favore delle persone.»
(Stephanie Kelton)
Definire oggi cosa sia (diventata) l’economia risulta un esercizio non del tutto facile. Eppure guardando al passato ci si accorge che essa aveva una connotazione ben definita: da Aristotele fino al XVIII secolo, l’economia viene trattata, accanto all’etica e alla politica come una parte della filosofia pratica. Se ci riferiamo ad Aristotele, ad esempio, troveremo una stretta correlazione con la politica, considerata la più importante delle arti, e all’etica poiché il fine ultimo doveva essere “il bene umano”.
In tale visione aristotelica, che guardava oltre il mero “perseguimento della ricchezza” come pragmatico fine immediato dell’economia, si affermava che “…il bene umano è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e divino se riguarda un popolo e le città”.
I presupposti filosofici giocano un ruolo essenziale anche nelle basi della stessa economia classica di Adam Smith.
Sembra, pertanto, improbabile negare che la filosofia abbia avuto un certo “peso” nel contribuire alla nascita dell’economia come discorso scientifico autonomo.
Se cadiamo nell’errore, come spesso molti fanno, di considerare l’economia (o sarebbe meglio dire l’economia politica), sic et simpliciter, una scienza sociale il cui unico approccio debba essere quello tecnico, trascurando altri aspetti come ad esempio quello storico, filosofico o politico, inevitabilmente si corre il rischio di essere indotti ad avere una visione di essa completamente distorta, con una insufficiente e falsata comprensione della complessa realtà in cui viviamo (è l’atteggiamento tipico degli economisti detti neoclassici e del loro metodo induttivo).
Ciò che importa capire, soprattutto da un punto di vista filosofico e politico, è che dietro questa scienza sociale c’è una “visione del mondo” ed un tentativo di spiegare i complicati comportamenti economici umani. Un tentativo che da secoli è causa di scontri ideologici e politici con risoluzioni e conseguenze, a volte, disastrose per popoli interi.
Ritornando al concetto di economia in un contesto moderno, è impensabile approcciarsi ad essa in termini prettamente numerici: l’economia, ed in particolare ogni teoria economica, deve necessariamente porre al centro del proprio interesse l’uomo e non il denaro (accumulazione di ricchezza), prefiggendosi come obiettivo primario ed eticamente imprescindibile il raggiungimento del benessere della collettività. Se il “bene comune” non è perseguito, a scapito di una economia che predilige l’interesse privato, questa economia diviene un’aberrazione sociale, espressione di una classe elitaria il cui unico fine è la massimizzazione del profitto.
Ed è in questo teatro che si palesa, nella sua espressione più perversa, l’odierno cinico sistema capitalistico che trova nel mondo dell’economia finanziarizzata il suo terreno più fertile.
Un “sistema” che Luciano Gallino ha ben descritto nel suo libro “Finanzcapitalismo”.
Ecco, dunque, l’altra faccia dell’economia: con l’affermarsi della produzione di merci e il commercio nasce il mercato capitalistico, in cui l’economia si trasforma in economia capitalista produttrice di merci per il mercato. Lo scambio non avviene più tra produttori ma tra capitalisti che vendono merci prodotte da lavoratori salariati. Lo scopo del commercio (cioè dello scambio di merci) non è quello di acquisire un diverso valore d’uso mediante un nuovo bene, ma di ottenere un profitto in denaro (valore di scambio).
Si passa, quindi, da M–D–M (merce-denaro-merce) a D–M–D* (denaro-merce-denaro) nel quale D*>D e D*-D è uguale al plusvalore ottenuto (Marx, Il Capitale).
Si apre così uno spazio illimitato d’espansione dei profitti e quindi della produzione e dei consumi, la ricerca infinita di materie prime e di nuovi mercati con un grande potere di trascinamento e di consenso poiché foriero di benessere per tutti. (è il processo imperialista già chiaro a Lenin , dove il capitale si sposta alla continua ricerca di luoghi e continenti dove poter espandere la propria egemonia e continuare a riprodursi estraendo profitti sempre maggiori). Due secoli di storia del capitalismo hanno dimostrato che così non è. La prima metà della promessa (l’espansione dei profitti, della produzione e dei consumi) è stata mantenuta, mentre la seconda (il benessere per tutti) è tuttora inevasa. (B. Amoroso, Euro in bilico)
La finanziarizzazione dell’economia ha così prodotto un interesse sempre più crescente verso la rendita e il puro guadagno, con il sorgere di figure (i rentiers) che aumentano indefinitamente le proprie ricchezze sottraendole dalle fatiche altrui prodotte.
In questo contesto la finanza speculativa entra prepotentemente in scena divenendo, di fatto, il nuovo motore dell’economia mondiale.
Possiamo definire questa fase come capitalismo assoluto, vera religione monoteista che governa il mondo.
Il capitalismo stile fordista anni ’30 , sopravvissuto fino agli anni ’80 circa , lascia il campo ad una forma ancora più ideologizzata , il liberismo.
Ciò che ha permesso a questo “sistema” di radicarsi nel tessuto sociale moderno è stata un’ideologia che ha fuso in sé varie teorie, economiche, filosofiche e politiche, la cui tipicità consiste nel prevedere la libera iniziativa (ossia la disposizione a promuovere attività economiche da parte di operatori privati) e il “libero mercato”: il ruolo dello Stato, in tale contesto, è molto limitato (l’economia del libero mercato è strettamente associata con la filosofia economica del laissez faire, lo Stato non interviene in prima persona nel mercato).
Il liberismo è considerato da molti come l’applicazione in ambito economico delle idee liberali, sulla base del concetto “democrazia vuol dire libertà economica” coniato da Friedrich von Hayek.
La filosofia economica che muove il liberismo sostiene e promuovere, in definitiva, il sistema capitalistico. La sua ideologia, orientata al libero mercato, va in contrasto con l’economia keynesiana ed il socialismo.
Le origini si possono ricercare nella teoria economica neoclassica, i cui principali esponenti ottocenteschi furono il francese Léon Walras (1832-1910) e l’austriaco Carl Manger (1840-1921) che, pur avendo apportato un taglio più scientifico alle formulazioni del liberismo classico –teorizzato da Malthus, Smith e Ricardo–, non aveva intaccato i postulati fondamentali della fede nella capacità del mercato di autoregolarsi e della neutralità assoluta dello Stato nell’economia. Fondata su questi presupposti, e per l’attenzione privilegiata che poneva sul profitto del singolo imprenditore, la teoria neoclassica si dimostrava carente per l’assenza di una prospettiva macroeconomica capace di generare prosperità per tutti i partecipanti del sistema: lo Stato, gli imprenditori, i lavoratori, i venditori e i consumatori.
Sostenitori moderni delle idee liberiste (o neoliberiste) furono R. Reagan e M. Thatcher.
Ma la domanda che dobbiamo ora porci è la seguente: il capitalismo è un sistema che tende automaticamente all’equilibrio oppure c’è bisogno che “qualcuno” intervenga per assicurarlo?
Il modello capitalista , come noto a Marx , è soggetto a delle crisi cicliche che possono dipendere da vari motivi.
L’uscita da queste crisi non può passare attraverso gli stessi agenti che in un qualche modo hanno appiccato il fuoco, è necessario un intervento esterno al modello dominante, o meglio un intervento di un agente esterno che deve agire all’interno del modello capitalista al fine di stabilizzarlo.
Nella sua Teoria Generale, J. M. Keynes analizza il capitalismo come un sistema che non tende naturalmente alla piena occupazione.
Le due opere fondamentali di Keynes, il Trattato sulla Moneta del 1930 e la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta del 1936, teorizzano quanto più o meno poi si ritrova nella politica rooseveltiana del New Deal: il pareggio del bilancio dello Stato non è più un tabù e il deficit si può usare per immettere nel sistema quanto serve per rilanciare la piena occupazione e con questa i livelli di consumi indispensabili per alimentare la domanda.
In questa maniera, il reddito di uno Stato –che per Keynes è definito dall’insieme di consumi e investimenti– può essere ripristinato rapidamente e, tramite la crescita, si può recuperare quanto è stato impiegato per creare nuova occupazione. Al circolo vizioso che si autoalimenta nella crisi di sovrapproduzione (eccesso di produzione/saturazione del mercato/distruzione di beni e di forza lavoro/disoccupazione/abbassamento dei consumi/nuovo eccesso di produzione e così di seguito) Keynes contrappone un ciclo positivo: intervento dello Stato per finanziare o incentivare la formazione di nuovo lavoro produttivo/crescita dei consumi/crescita della produzione/crescita del gettito fiscale e recupero della somma che lo Stato ha investito inizialmente.
In questo contesto e con queste premesse proviamo ad inserire l’approccio MMT (modern money theory) al modello capitalista inteso in senso stretto , o meglio , all’evoluzione iper liberista del capitalismo post anni ’80.
La MMT propone la piena occupazione mediante dei piani di job guarantee, (lavoro garantito) finanziati attraverso deficit statali abbastanza ampi da garantire un lavoro dignitoso (garantendo diritti) a chiunque abbia voglia di lavorare. I settori da occupare e valorizzare , i salari, gli orari di lavoro, le garanzie, sono decisi dallo stato.
Viene in questo modo superato l’approccio NAIRU (non-accelerating inflation rate of unemployment) per dirla in termini neoclassici, per approdare ad un più keynesiano NAIBER (non accelerating inflation buffer employment ratio)
Lo stato dunque diventa il vero e proprio motore dell’economia, intorno al quale si articola il mercato.
Fissando la retribuzione del “lavoratore garantito” e garantendo ad esso determinati diritti (malattia, ferie, ecc), si viene a creare una situazione minima-garantita sotto la quale il mercato non può scendere.
Il cosiddetto “esercito di riserva” di Marx (lavoratori disoccupati e/o sottopagati) viene a trasformarsi in un esercito di “lavoratori garantiti”, la cui funzione sociale viene del tutto ribaltata.
Se nel capitalismo la disoccupazione è una clava da agitare per regolare al ribasso diritti e salari dei lavoratori, nel modello MMT i lavoratori garantiti sono un potente deterrente e un altrettanto valido regolatore al libero mercato.
Ai capitalisti non rimarrebbe altro che adattarsi alle scelte dello stato, pena la perdita di manodopera.
Ci si potrebbe spingere ancora oltre, immaginando lo stato come “price leader”e proponendo dei prezzi amministrati in determinati settori strategici, come ad esempio il settore alimentare, quello energetico o quello della viabilità.
Da un lato abbiamo dei salari minimi sotto ai quali non si può scendere (pena la perdita della manodopera), e dall’altro abbiamo un prezzo sopra il quale non si può andare, pena la paradossale uscita dal mercato stesso! (questa proposta non è ascrivibile direttamente alla MMT, ma può essere applicata da stati che emettono moneta sovrana)
Le imprese a quel punto non potrebbero far altro che agire sui profitti, riducendoli, e dando il via ad un processo redistributivo che gioverebbe all’economia ed ai consumi (ricordiamo che la propensione al consumo dei redditi più bassi è maggiore rispetto a quella dei redditi più alti).
La MMT dunque , oltre ad essere pienamente integrabile a Marx, risulta come un superamento di fatto del capitalismo inteso in senso stretto.
La libera iniziativa sarebbe sì garantita, ed eventualmente incoraggiata, ma il campo d’azione verrebbe limitato all’interno di uno spazio predefinito.
Il recinto entro il quale andranno a muoversi gli “animals spirit” sarà deciso dallo stato, stabilendo un minimo sotto il quale non si potrà mai scendere.
Il capitalismo che vive esclusivamente di profitti e della mercificazione completa del lavoro salariato, dopo l’applicazione della MMT, non sarebbe più lo stesso.
La MMT rappresenta dunque senza dubbio un superamento del capitalismo, prima a livello sociale che economico.
Piaghe sociali come l’alienazione delle classi subalterne, lo smembramento dei diritti duramente conquistati, la mercificazione del capitale umano, verrebbero sicuramente superate.
La MMT non rappresenta il migliore dei mondi possibili ma, sicuramente, rappresenta un buon punto di partenza.