Dalla modernità alla postmodernità

di Matteo Volpe

Una promessa non mantenuta

La Postmodernità ha avuto molti nomi. Seconda modernità per Ulrich Beck, surmodernità secondo Marc Augé, o la famosa modernità liquida di Zygmunt Bauman. Comunque la si chiami è certo che ci troviamo a vivere in una nuova fase storica, distinta dalla precedente. Non crediamo che si possa negare il fatto questa fase presenti caratteri inediti. Il punto è semmai quello di capire se si tratti di un’epoca del tutto diversa e posteriore alla modernità, o piuttosto di uno stadio di quest’ultima, un suo ulteriore sviluppo. Chi scrive propende per questa seconda ipotesi.

Volendo periodizzare la postmodernità (in modo in parte arbitrario come tutte le periodizzazioni) potremmo farla iniziare nel 1989, facendola simbolicamente coincidere con il crollo del Muro di Berlino, ma comincia ad affermarsi a partire dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso (La condizione postmoderna di Lyotard è del ’79). La data simbolo della “vecchia” modernità, invece, è il 1789, ovvero il crollo ufficiale dell’ancien regime (ma potrebbe essere fatta risalire all’inizio del Settecento, o anche, come per molti, al 1492; si tratta tuttavia di una questione nella quale non intendiamo addentrarci in questa sede). In questi duecento anni si compie il destino di questa fase del moderno che infine trascolora (o, come direbbe Bauman, si liquefa) nel postmoderno.

Nella definizione di Costanzo Preve, la modernità è un “progetto incompiuto” di emancipazione dell’umanità. Molto sinteticamente, il carattere saliente del moderno lo si può rintracciare nella sua contrapposizione al pre-moderno. La stabilità di un mondo immutabile, rigido, viene sconvolta. La modernità abolisce l’ordine eterno delle cose e crea un continuo mutamento. Nulla è più come prima, o nulla lo sarà; per dirla con Bauman: “La modernità è il tempo nell’epoca in cui il tempo ha una storia”.

Il sociologo polacco distingue tra due processi propri della modernità ricorrendo al lessico delle scienze fisiche, quello di solidificazione, in cui le strutture e i legami sociali si consolidano e si rapprendono, tendono ad assumere una forma stabile, e quello di fusione, che invece dissolve i legami e le comunità, sradicando gli individui dall’ambiente.

Si tratta di due processi che si susseguono. La fusione però serviva a disancorare gli individui da sistemi tradizionali per poi catapultarli nella nuova epoca. A questa fusione perciò è seguita una solidificazione, rappresentata dall’industria fordista, che àncora gli operai alla fabbrica e irreggimenta i singoli nella società dei produttori. Nel postmoderno, invece, la fusione continua e reiterata non sembra preludere a uno stato solido. Questo processo trova in se stesso la sua ragion d’essere: se la precedente modernità è una fusione che anticipa una solidificazione, quella attuale si distingue proprio per la sua intrinseca e persistente liquidità. Non vi è più la ricerca di un nuovo ordine in un futuro, ma l’estensione di un eterno presente fatto di momenti frammentari.

Volendo caratterizzare la postmodernità, ci sono due elementi fondamentali: uno è la “privatizzazione”, cioè la delega all’individuo della gestione di ogni aspetto della sua esistenza: ciò non significa che l’individuo sia libero di autodeterminarsi, è pur sempre sovradeterminato dalle necessità della società del consumo, ma che la responsabilità ricade interamente sulle sue spalle; egli non trova il sostegno di istituzioni sociali e di una comunità di riferimento ma deve contare esclusivamente sulle proprie risorse. Per usare l’efficace e sintetico motto di Ulrich Beck, è indotto a trovare “soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche”.

Il secondo aspetto è la sparizione di un fine collettivo, di un telos, un mutamento storico conseguibile nel futuro.

Esiste anche un terzo aspetto, legato ai primi due, sviluppato dai pensatori postmodernisti. La scomparsa di quelle che Lyotard chiamava “metanarrazioni”, cioè una concezione unitaria del sapere e, aggiungiamo noi, dell’esistenza umana e dei suoi scopi. Secondo Lyotard in un mondo scientifico non è possibile pensare una fondazione non scientifica del sapere. Gli enunciati propri della scienza sono quelli dichiarativi, cioè quelli vertenti sull’alternativa vero/falso. Gli enunciati propri delle narrazioni, invece, non sono dichiarativi, o per lo meno non soltanto. Di conseguenza non può una narrazione sussumere la scienza sotto di sé, non può fondare un sapere e dunque non può unificare la conoscenza. La scienza si articola sulla paralogia, sul riconoscimento delle differenze, che è esattamente il contrario di un sapere unificato, come quello hegeliano o marxiano (che sono i principali obiettivi polemici del postmodernismo).

Questi tre aspetti in realtà sono intimamente connessi, come vedremo in seguito. Per ora ci basti considerare che il postmoderno tende a scomporre ciò che era unito. A una visione globale se ne sostituisce una frammentaria e differenziata. I teorici postmodernisti contrappongono la differenza all’idea della totalità. La totalità (in particolare quella concepita dalla dialettica hegeliana e marxiana) soffoca la differenza. Non è più concepibile una visione “forte”, ma soltanto un pensiero “debole” che va alla ricerca, come scrisse Vattimo delle “tracce della nostra tradizione che non sono mai divenute dominanti”; una differenza intesa come “interferenza”. È questa, come riconosce lo stesso Vattimo, una concezione “monumentale” del sapere, concezione che, commentiamo noi, in virtù della sua stessa debolezza, è più quella propria di un critico d’arte che di un filosofo.

Il postmoderno tende a rappresentarsi come una rivendicazione della differenza in contrapposizione alla totalità sempre vista come totalitaria. In quanto tale, esso rigetta tanto il discorso emancipativo (cioè la dialettica marxista) quanto il performativismo amministrativo del vecchio capitalismo (come la teoria dei sistemi). Ma rigetta anche qualsiasi idea di politica, se non intesa o come liberalizzazione delle differenze, o come consenso soltanto locale, che si deve proprio all’eteromorfia: una politica quindi anch’essa debole, perché riconosce come scopo la differenza e non la ricerca del consenso che creerebbe terrore. Necessariamente Lyotard deve arrivare a queste conclusioni quando scrive che, data l’estrema proliferazione delle differenze, non è più possibile trovare un consenso su grande scala (a meno di non ricorrere all’imposizione di uno stato totalitario, ma si tratterebbe di un consenso estorto).

L’idea pessimistica di Lyotard è opposta, e speculare, a quella di Habermas, che diventerà uno dei principali critici del postmodernismo. Secondo quest’ultimo è proprio il consenso, la base per un’emancipazione, laddove vi sono “interessi generalizzabili”, cioè riconoscibili da tutti gli attori, mentre tra “interessi non generalizzabili” può esserci solo conflitto o un compromesso. È soltanto nella repressione di interessi generalizzabili (e non nella sua affermazione, come per Lyotard) che è riscontrabile un potere illegittimo.

Sia il pessimismo lyotardiano che l’ottimismo habermasiano ci sembrano astratti. Il discorso di Habermas è figlio di quello illuminista (sebbene qui il filosofo tedesco sia ancora nel periodo “francofortese” e non sia ancora diventato post-marxista) che immagina di pervenire a un consenso universale attraverso l’esercizio della ragione. Lyotard invece assolutizza l’elemento della differenza, considerato come fatto immutabile ed eterno. La differenza, in verità, non è soltanto un punto di partenza, ma soprattutto un punto di arrivo, è l’esito di un processo in cui queste differenze sono accettate, esaltate e poste in contrapposizione con le altre. È utile a questo proposito ripercorrere la critica sociologica di Bauman, che nota come nella società postmoderna manchi quella che definisce “negoziazione delle differenze”. Venendo a mancare spazi e luoghi di confronto con l’altro, anche la condivisione degli spazi avviene nel totale isolamento di individui “immunizzati” dal contatto (se non superficiale) con l’estraneità. Immortalando questo stato di cose, come in un fermo immagine, allora ha ragione Lyotard, effettivamente è impossibile trovare una condivisione di intenti e scopi collettivi. Se invece si pensa la politica in modo dinamico, come rimozione degli ostacoli e risocializzazione dei luoghi, così da permettere una negoziazione delle differenze, e quindi anche accordo sui fini generali, non solo una politica collettiva e non meramente locale e settoriale (come quella delle singole “battaglie” su questo o quel diritto di cui ci informano periodicamente i media) diventa possibile, ma anche necessaria, l’unica che possa permettere oltre che un accordo anche la chiarificazione e l’esplicitazione del conflitto. Il conflitto ci sembra sia stato abbastanza screditato, considerato come una sorta di piaga da evitare in tutti i modi. In fondo anche quando Lyotard dice che è impossibile un consenso universale, ma solo accordi locali e particolari, non sta proprio escludendo la possibilità stessa del conflitto? Occorre, invece, che gli spazi di negoziazione della differenza (come dice Bauman, ma potremmo dire, semplicemente, di dialettica sociale e politica riconosciuta) siano posti come necessità inderogabile per chiarire quei conflitti che resterebbero invece oscuri ad alcuni dei soggetti interessati, i quali si troverebbero così a subire passivamente le dinamiche sociali. Essendo i postmodernisti antidialettici essi non comprendono il conflitto e la sua forza propulsiva. È dal conflitto che scaturisce un accordo o un compromesso. È dal conflitto che emergono nemici e alleati. Quanto agli “interessi generalizzabili” semplicemente non esistono, a meno che con questa espressione non si intendano i compromessi quali esiti dialettici dei conflitti, ma tutti gli interessi, presi di per se stessi, sono non generalizzabili. A essere generalizzabile è, semmai, la loro relazione dialettica.

Le differenze, per così dire, devono essere “socializzate”, bisogna che si incontrino e si scontrino entro spazi pubblici, proprio per la stessa tutela di esse. Viceversa, rappresenterebbero soltanto l’impotenza dell’individuo che si trova a subire dinamiche del tutto sottratte al suo controllo (tranne per l’illusione della scelta consumistica). Da questa prospettiva, è proprio la bistrattata dialettica che ridiventa potenza liberatrice, contrariamente a come l’hanno descritta i postmodernisti. La nuova sfida della politica nella postmodernità, pertanto, è la ridefinizione di uno spazio pubblico, spazio pubblico che oggi si trova invaso dal privato e pertanto negato. Non è più la dimensione individuale a dover essere protetta dal controllo del pubblico, semmai è il pubblico a dover essere difeso dalla privatizzazione per permettere agli individui di agire ancora in esso invece che esperire in modo privatistico e pertanto alienato la loro esistenza.

Politica locale per questioni globali?

Se invece lo scopo diventa la differenza – ma una differenza, si badi bene, intesa in senso anti- dialettico, che cioè preclude la ricerca di qualsiasi scopo che non sia la sua stessa riproduzione e proliferazione, e che vede nella contraddizione un’aura di terrore – allora la dimensione pubblica della vita individuale viene abolita. Il consenso, scrive Lyotard “deve essere locale, ottenuto cioè dagli interlocutori momento per momento, e soggetto a eventuale revisione”. Non è il contesto metanarrativo che comprende e delimita i consensi particolari, ma questi ultimi che definiscono una cornice locale, mobile, di accordo. Non è lo spazio pubblico, potremmo dire traducendo nella sociologia politica, che nello stesso tempo delimita e garantisce l’individuo privato, ma è l’individuo che, privatamente, contratta i propri accordi e delinea i contorni locali della politica.

Questo privatismo e localismo cui conduce la logica postmoderna poggia sull’illusione dell’autonomia. Agenti razionali e autonomi che fanno le loro “mosse linguistiche” nella completa assenza di ogni sovradeterminazione. Ma il contesto (linguistico, sociale, culturale, economico) nel quale fanno le loro mosse non è neutro. Esso le influenza e le determina. Nella società postmoderna, però, è del tutto fuori portata dal controllo dell’individuo che non ha a disposizione spazi pubblici e civili di mediazione e può solo subirlo, magari illudendosi di essere autonomo.

Una politica locale (quindi del tutto subordinata alle esigenze private) una politica che parta dalla rinuncia al perseguimento dei grandi fini, non è politica. Non è in grado, infatti, di dir nulla in merito alla definizione del contesto nel quale gli individui si trovano ad agire, ma da questo contesto è determinata.

Un ambito nel quale risulta evidente l’impotenza dell’individuo postmoderno è quello della tecnica. Uno dei pensatori che ha meglio mostrato la necessità di una politica non determinata dalla tecnica è stato Hans Jonas. Poiché, dice Jonas, l’umanità è orami in grado, per la prima volta, di autodistruggersi, ciò impone la fondazione di una nuova etica. Quest’etica dovrà porre come enunciato fondante e ineludibile la salvaguardia delle future generazioni e in primo luogo della loro sopravvivenza. C’è un “principio di responsabilità” nei confronti dei posteri che si pone come dovere etico per il genere umano. L’umanità non può quindi agire in modo da mettere in pericolo la propria esistenza, nemmeno se lo desiderasse. Di conseguenza, con questa nuova etica, la politica torna a essere prioritaria poiché essa ha la facoltà di garantire le condizioni per l’esistenza umana. Crediamo di poter estendere questo discorso dalla mera sussistenza fisica a un’esistenza piena, desiderabile e che permetta la realizzazione di ogni individuo. Se infatti fosse pregiudicata la possibilità per le prossime generazioni (e per le generazioni attuali di certe zone geografiche) non di sopravvivere, ma di vivere bene, cioè di permettere il dispiegamento di una individualità libera nel senso più completo della parola, ciò non vedrebbe altrettanto violato quel principio di responsabilità? Jonas subordina tutto alla mera sopravvivenza, ma noi non riteniamo di dover scegliere tra vivere bene e rischiare di morire, o sopravvivere ma vivere male. Questa ci sembra una questione scolastica più che reale. Piuttosto, ci pare che oggi ciò che può mettere a rischio l’esistenza (il consumo eccessivo delle risorse, l’inquinamento dell’ambiente, le guerre, la manipolazione biogenetica senza limiti e altri eventuali imprevedibili sviluppi della tecnica) sia anche ciò che impedisce di vivere bene. La politica “debole” del consenso locale, non è assolutamente in grado di rapportarsi a questioni di tale respiro. Anche se non fosse minacciata l’esistenza dell’umanità, lo sarebbe sicuramente la pretesa che l’era moderna ha posto come necessità primaria: la piena realizzazione dell’individuo.

Un individuo realizzato?

L’ideologia postmodernista poggia su una promessa: la piena realizzazione dell’individuo avverrà se questi potrà abbandonare senza nostalgia le narrazioni moderne, l’idea di totalità. Come ha notato Costanzo Preve il capitalismo postmoderno può tranquillamente fare a meno di questa idea, la frammentarietà non ne mina l’ideologia (o le ideologie) come può minarne altre.

Bauman, inoltre, in Consumo, dunque sono, ha rilevato come la società dei consumi non mantenga le sue promesse; le merci in realtà non consentono la realizzazione del sé. La domanda se questa sia un’epoca più felice rispetto al passato – domanda cui non è possibile dare una risposta e che non ha neanche senso porsi considerate le diverse definizioni che si dà della felicità nelle diverse epoche – dovrebbe essere riformulata nel modo seguente: è consentito il raggiungimento della felicità entro le modalità in cui oggi è definita? La risposta del sociologo polacco – condivisa da chi scrive – è che non è consentita. Il consumismo stimola il desiderio volubile di merci, ma questo desiderio non potrà mai essere appagato, di modo che esso possa spostarsi su un altro oggetto, e così all’infinito. Le stesse condizioni di esistenza e riproduzione della società liquida, quindi, non consentono l’appagamento delle aspirazioni individuali.

Questa ci pare una critica decisiva alla società postmoderna e, più indirettamente, al postmodernismo che auspica la “liberazione” della differenza eliminando tutti i residui “metafisici”, quindi in sostanza lo “sganciamento” dell’individuo da gruppi e istituzioni sociali entro i quali prima era incasellato. La differenza tanto invocata viene in realtà ogni volta frustrata.

La differenziazione è un’esigenza della società dei consumi. Se la società di produttori aveva bisogno di irreggimentare nell’organizzazione produttiva e centralizzare nella fabbrica, quella dei consumi invece necessita di privatizzare, scorporare, “esternalizzare”, infine delegare all’individuo la risposta alle “contraddizioni sistemiche”. Ma proprio perché sradicato, divelto dai riferimenti collettivi, l’io è più debole. Quest’io si trova nell’impossibilità di programmare obiettivi a lungo termine. Sa qual è il posto in cui inizia a lavorare, ma non quello in cui finirà, non può legarsi sentimentalmente in modo troppo intenso a un dato ambiente, perché dovrà a un certo momento abbandonarlo e trasferirsi altrove. La realizzazione personale non è più il termine di un “progetto di vita” costruito con fatica, ma un illusorio, fugace e frustrato appagamento nella fruizione continua e reiterata delle merci di un’io frammentato che si sposta di continuo.

Per capire a fondo questa fase della modernità può essere utile ricorrere alla metafora di Deleuze e Guattari, cioè il rizoma:

“Un rizoma non incomincia e non finisce, è sempre nel mezzo, tra le cose, inter-essere, intermezzo. L’albero è la filiazione, ma il rizoma è alleanza, unicamente alleanza. L’albero impone il verbo “essere”, ma il rizoma ha per tessuto la congiunzione “e… e… e…”. In questa congiunzione c’è abbastanza forza per scuotere e sradicare il verbo essere. Dove andate? Da dove partite? Dove volete arrivare? Sono domande davvero inutili. Fare tabula rasa, partire o ripartire da zero, cercare un inizio o un fondamento, tutto questo implica una falsa concezione del viaggio e del movimento (metodica, pedagogica, iniziatica, simbolica…).

Il viaggio non ha più una meta e nemmeno un inizio, giacché il passato si dissolve col futuro, è soltanto un vagabondare continuo e senza approdo. Caratteristiche del rizoma sona la connessione, l’eterogeneità (qualsiasi punto può essere connesso con qualsiasi altro) e la molteplicità. Esso si oppone al modello arboreo che da un centro prosegue in più diramazioni (e che dunque prevede una gerarchia). Quello di Deleuze e Guattari è un modello decentrato e deterritorializzato che descrive a meraviglia la postmodernità. Con esso si può inoltre comprendere come mai le pretese della postmodernità di liberare l’individuo e la differenza siano illusorie. È verissimo che “i nomadi hanno inventato una macchina da guerra conto l’Apparato di Stato”. Lo osserviamo quotidianamente. Come ha fatto notare Bauman, l’era che stiamo vivendo è quella della rivincita dei nomadi. Prima perseguitati, essi hanno ora imposto la loro legge. Ma questa rivincita non è stata la rivincita dell’individuo. Non è stata la rivolta liberatrice di questi contro lo Stato che voleva radicare l’individuo. La rivincita dei nomadi e la sconfitta dello Stato arboreo la vediamo nella privatizzazione delle funzioni pubbliche e nella deregolamentazione dei mercati, nell’abolizione dello Stato sociale e delle tutele dei lavoratori, nelle guerre “esportatrici di democrazia”, cioè l’imposizione del mercato globale e della potenza nomade della finanza agli stati ancora recalcitranti.

La stimolazione e la moltiplicazione dei desideri (in particolare di desideri estremamente volubili e passeggeri tipici della società dei consumi, desideri che possono essere molteplici e variabili e quindi più che manie, capricci) e dei piaceri (intensi ma fugaci) non sono una variabile della libertà. Lo aveva capito molto bene Foucault: “un dispositivo molto diverso dalla legge, anche se poggia localmente su procedure d’interdizione, assicura, attraverso una rete di meccanismi connessi gli uni agli altri, la proliferazione di piaceri specifici e la moltiplicazione di sessualità disparate”. Si pensa che il potere voglia soltanto inibire e ignorare il desiderio e il piacere, invece “mai un numero maggiore di centri di potere; mai maggiore attenzione manifesta e prolissa; mai contatti e legami circolari più numerosi; mai più focolai in cui si accendono, per disseminarsi più lontano, l’intensità dei piaceri e l’ostinazione dei poteri”. Foucault parla di poteri, noi invece pensiamo che si possa parlare di potere al singolare e che se ne possa individuare un’origine. Pensiamo anche che questa modalità del potere sia caratteristica della postmodernità, seppure, possa aver fatto la sua comparsa anche in passato.

Si assiste a un doppio processo: da un lato la differenziazione, ben descritta dai postmodernisti. Dall’altro, però, esiste anche una crescente omogeneizzazione. Proprio perché perde punti di riferimento quali il lavoro, la casa, il territorio, la classe, lo Stato, l’individuo si confonde in un amalgama fluido dai contorni sfumati; come ha bene evidenziato Costanzo Preve classi in lotta quali Borghesia e Proletariato si dissolvono in un’unica “classe media globale”. Questa omogeneità presenta tratti differenziati e differenzianti, perché in essa ognuno vive tendenze comuni ma isolatamente, attitudine tipica del consumismo e del privatismo.

Lo sradicamento e la deterritorializzazione non hanno liberato l’individuo. Lo hanno invece consegnato a forze che egli non è minimamente in grado di controllare. Dietro l’ideologia del “consumatore sovrano” si nasconde un io fragile, frammentato, egli stesso una di quelle merci che può comprare nell’illusione di una “libera scelta”.

Abbiamo quindi visto, nel corso di questa trattazione, che la postmodernità non è la realizzazione dell’esistenza individuale e della differenza nella loro pienezza. Questa esistenza è invece sovradeterminata in un contesto di cui non è consapevole e che non può controllare, avendo perduto gli spazi pubblici di mediazione. Solo la politica (nel suo significato più nobile e nella sua più alta tradizione di pensiero e di azione) può rimettere l’individuo al centro della storia, solo la politica può affrontare questioni epocali e solo la politica può ricostruire quegli spazi pubblici che permettono una “negoziazione” delle differenze in una totalità non tirannica ma anch’essa dialettica.

Riferimenti bibliografici:

  • Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2011.
  • Costanzo Preve, Il tempo della ricerca. Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia, Vangelista, Milano, 1993.
  • Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
  • Jean_François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli,

    Milano, 2015.

  • Gianni Vattimo, Pier Aldo Rovatti, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 2010.
  • Jurgen Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Bari, 1981.
  • Hans Jonas, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 2009.
  • Zygmunt Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza, Bari, 2010.
  • Gilles Deleuze, Felix Guattari, Rizoma – Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, sez. I,

    Castelvecchi, Roma, 1997.

  • Michel Foucault, La volontà di sapere – Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano, 2006.

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Autore: Matteo Volpe è laureato in filosofia, collabora con varie testate occupandosi di politica e società; amministra un blog personale a tema politico (“Vecchio Conio”); scrive in prosa e in poesia e ha pubblicato una raccolta di poesie per Ediemme – Cronache italiane, “Canti metropolitani” (dicembre 2014).