di A. Scorrano
Il recente accordo sul Nuovo Patto di Stabilità e Crescita, mantiene intatto il “moloch” dei principi fondamentali del Trattato di Maastricht. Sembra rappresentare, addirittura, un passo indietro nelle politiche economiche europee. L’introduzione di margini di flessibilità, pur concepita, apparentemente, per evitare l’austerità e stimolare la crescita, solleva preoccupazioni sulla direzione delle politiche che hanno come visione sottostante, ça va sans dir, la demonizzazione dei deficit pubblici e della spesa pubblica.
Una delle principali criticità del nuovo Patto è, appunto, ancora una volta l’insistenza di perseverare con la riduzione del deficit. Sebbene l’accordo preveda un aggiustamento annuo dello 0,5% del Pil in termini strutturali quando il deficit supera il 3%, si apre la possibilità di rallentare questo processo in considerazione dell’aumento della spesa per interessi. Ci sarà tra il 2025 e il 2027 un periodo transitorio nel quale la Commissione europea potrà tenere conto di circostanze attenuanti, quali il costo del servizio del debito, che permetteranno di limitare l’onere dell’aggiustamento.
Il braccio preventivo, che impone ai paesi con un rapporto debito-Pil superiore al 90% di ridurre il disavanzo all’1,5%, introduce sfide significative e gravi. Gli aggiustamenti strutturali richiesti potrebbero comportare una pressione eccessiva sulla capacità dei paesi di investire e attuare riforme, minacciando di tradursi (ancora!) in una politica di austerità che si è dimostrata una via molto perniciosa. La riduzione del debito, anch’essa prevista dal Patto, risulta essere una misura ambivalente. L’obiettivo dell’1% annuo per i paesi con un rapporto debito-Pil oltre il 90% e dello 0,5% per quelli tra il 60% e il 90% non solo può rivelarsi difficile da raggiungere senza sacrificare gli investimenti pubblici necessari per sostenere l’economia ma costituisce anche un nonsense dal punto di vista macroeconomico (quanto meno dal punto di vista non “classico” dell’economia).
Ricordo, velocemente, che l’austerità è intesa come la pratica di ridurre la spesa pubblica al fine di ridurre il deficit ed il debito ed è stata a lungo promossa come un “rimedio” economico. Tuttavia, un’analisi non solo critica ma anche empirica dei fatti rivela che questa strategia provoca effetti dannosi sulle economie nazionali, minando la crescita ed ampliando le disuguaglianze. Numerosi economisti ed accademici hanno criticato l’austerità come strategia economica, sottolineando gli effetti negativi sulla crescita, sull’occupazione e sulla coesione sociale, tra questi Joseph Stiglitz, Amartya Sen, Paul Krugman, Ha-Joon Chang, Richard Koo, praticamente tutti i rappresentanti della Modern Money Theory (Stephanie Kelton e Randall Wray, solo per citarne alcuni) e, addirittura, lo stesso Olivier Blanchar.
La necessità di pattuire i piani di spesa con la Commissione europea, unita alla possibilità di sforare dello 0,3% rispetto ai piani concordati, potrebbe rallentare ulteriormente la capacità dei paesi di adottare politiche economiche flessibili e reattive alle esigenze emergenti.
In conclusione, il “nuovo” Patto di Stabilità e Crescita, inteso a fornire un quadro di disciplina fiscale nell’Unione Europea, fa emergere non poche critiche, con alcune preoccupazioni chiave relative al rischio per la crescita economica e all’impatto sociale delle politiche proposte.
Una delle principali criticità riguarda la direzione complessiva del Patto, che sembra ancora una volta privilegiare il rigore fiscale a scapito della crescita economica. La fissazione di vincoli rigidi in termini di deficit e debito limita la capacità dei governi di adottare politiche anticicliche durante periodi di recessione. Questa rigidità potrebbe essere particolarmente problematica in situazioni straordinarie, come crisi economiche o shock, quando la flessibilità delle politiche pubbliche è cruciale per mitigare i danni economici.
La demonizzazione dei deficit pubblici e della spesa pubblica è un punto centrale: questa prospettiva suggerisce che considerare automaticamente il deficit come un male porta a politiche eccessivamente restrittive, dannose non solo per la crescita economica ma per l’intera società. Gli investimenti pubblici, spesso necessari per stimolare la ripresa economica, potrebbero subire contraccolpi a causa di politiche che mirano a mantenere il deficit al di sotto del 3% del Pil e il debito al di sotto del 60%, parametri del tutto arbitrari e svincolati dalle reali esigenze di un paese che dovrebbero essere considerate ed affrontate utilizzando uno spettro molto più ampio di valutazioni, al di là dei freddi numeri.
L’analisi critica evidenzia anche il rischio di riadottare le cosiddette “ricette lacrime e sangue”. Queste misure di austerità, spesso implementate in risposta a crisi economiche, possono avere un impatto significativo sulle classi meno abbienti e sul mondo del lavoro in genere, sul quale, come abbiamo recentemente visto, subiscono il colpo più duro.
La storia ci insegna che tali politiche possono aumentare le disuguaglianze sociali e minare la stabilità economica a lungo termine.
La limitazione della capacità dei governi di adottare politiche anticicliche è un aspetto cruciale sollevato e la rigidità dei vincoli di bilancio ostacola seriamente una risposta efficace a crisi impreviste, impedendo l’implementazione di misure di stimolo economico quando ne è più necessario, ma anche in una prospettiva di raggiungere e mantenere un certo livello di welfare.
In conclusione, l’analisi critica del “nuovo” Patto di Stabilità e Crescita sottolinea come l’approccio proposto potrebbe mettere a rischio la crescita economica e generare impatti sociali negativi, richiedendo una riflessione approfondita sulle politiche economiche necessarie per garantire una ripresa sostenibile ed equa. La via non è certo quella fino ad oggi tracciata.