di Jacopo Foggi
- Introduzione
Negli ultimi mesi sta esplodendo in misura ancora maggiore rispetto a quanto avvenuto già nel corso degli ultimi anni, il dibattito sulle varie proposte politiche di reddito di sostegno e prevenzione della povertà. Dal reddito garantito, reddito di cittadinanza, reddito minimo, reddito di partecipazione e così via.
Occorre però dire subito che, come mostra da ultimo la recente fondamentale guida scritta da Elena Granaglia e Magda Bolzoni per Ediesse (Il reddito di base), su buona parte di queste definizioni vi è, nel dibattito giornalistico, una grandissima confusione, provocata forse in buona parte a cominciare da sostenitori del cosiddetto “reddito di cittadinanza” del Movimento 5 Stelle, che hanno utilizzato questo termine per proporre semplicemente un sostegno al reddito in funzione dell’occupazione, cosa ovviamente lodevole ma che niente ha a che fare con la definizione specifica del reddito di cittadinanza. A questa accusa di confusione occorre aggiungere che al di là di questa, colpisce anche in particolar modo la totale assenza nel dibattito di quella che invece è tra le proposte politico-economiche più interessanti di politica economica per l’occupazione, proposto da una vasta rete di economisti post-keynesiani, in particolare statunitensi ma non solo, che si riconoscono in particolare nel filone del “neo-cartalismo” moderno (una teoria della moneta che evidenzia il ruolo cruciale dello stato nella determinazione dell’accettabilità e del valore della moneta). Si tratta dell’idea dei Piani di Lavoro Garantito e di Occupazione di Ultima Istanza (Employer of Last Resort Program/Job Guarantee – ELRS/JG).
La mia scelta in questo intervento è quella di partire dalla confusione concettuale e terminologica connessa alle proposte di politiche di sostegno al reddito, allo scopo di far emergere meglio le particolarità della proposta dei Programmi di Lavoro Garantito.
Lavoro o sussidi? Una sintesi del programma di Lavoro garantito – JG
Cominciamo subito col dire che il famigerato “reddito di cittadinanza”, nella sua versione originaria proposta dal filosofo belga Philipe Van Parijs, e di cui in Italia è un sostenitore in particolare l’economista Andrea fumagalli[1], è essenzialmente quella che è stata recentemente proposta, e bocciata, in un referendum in Svizzera: cioè un reddito pari un livello medio di benessere, cioè pari al reddito medio netto, dei cittadini di una nazione, destinato a tutti, su base individuale, incondizionatamente e indipendentemente dal livello del reddito, in base, appunto solo al requisito di essere nati in un certo stato (o di averne la cittadinanza). Si tratta quindi di una proposta politica di carattere effettivamente estremo (è, cioè, effettivamente estrema come sembra) che in quanto tale sottostà a tutta una serie di condizioni di fattibilità, di sostenibilità e di coerenza con le altre istituzioni sociali, particolarmente restrittive. Non approfondiremo questa proposta, basti solo evidenziare quali possono essere i presupposti basilari di funzionamento di una politica del genere: Uno, quante sono le persone che continuerebbero a lavorare? Due, Come fare a sostituire chi sceglie di non lavorare? Sarebbe necessario dall’oggi al domani un aumento della produttività almeno pari alla diminuzione della forza lavoro, oppure un radicale aumento delle importazioni; oppure aumentare vertiginosamente i salari dei lavori veramente indispensabili in conseguenza della loro nuova scarsità; oppure le imprese comincerebbero a pagare stipendi più bassi o anche nessuno stipendio. Tutto può succedere, chissà. Ma tali mutamenti nella struttura sociale certamente non possono essere fatti dall’oggi al domani per decreto.
Per cui, tutte le altre proposte politiche, di cui si parla, di sostegno ai redditi bassi consistono in misure molto più tradizionali, e per le quali vanno più o meno bene le classiche definizioni di “sussidio di disoccupazione” e “reddito di assistenza sociale”, pur se in forme nuove, più ampie e meno discriminanti, per le quali è giusto ricercare nuove terminologie meno compromesse: ma appunto si tratta di vedere bene. Tutte queste politiche hanno una serie di caratteri ben precisi, che ce le fanno identificare come “assistenza sociale” o sussidi di disoccupazione:
- Sono perlopiù calcolate in base a quozienti familiari (se un singolo prenderebbe 500, una coppia convivente non prende 1000 ma per esempio 700, in quanto molte spese sono comuni, e così via). Non sono quindi redditi su base individuale ma solo in quanto componente di un gruppo familiare.
- E’ strettamente condizionato ad una prova dei mezzi, cioè alla dimostrazione di rientrare in scalini di reddito svantaggiati (anche qui in base a un reddito familiare, vedi ISEE) e non per diritto individuale di cittadinanza o altro.
- Sono inoltre più o meno vincolate alla disponibilità o alla effettiva accettazione di determinate occupazioni offerte o considerate idonee. Cosa che spesso li rende anche condizionati rispetto alla durata nel tempo, in particolare ovviamente per quanto riguarda i sussidi di disoccupazione.
- Il livello di contribuzione che viene offerto è naturalmente molto vario, ma è costituisce chiaramente il discrimine fondamentale, non c’è bisogno di dirlo. Si va dall’elemosina di 100-150 euro mensili del reddito d’inclusione del ministro Poletti ai 650-750 euro della proposta dei Cinque Stelle (a seconda di come si sceglie di calcolare la soglia di povertà).
Questi sono gli elementi fondamentali che caratterizzano una politica di assistenza sociale alla povertà da una che non lo è: la condizionalità e la prova dei mezzi. Naturalmente le condizionalità possono variare tanto quanto le proposte politiche: cioè quello che distingue le varie proposte sono appunto i vari criteri delle condizioni.
Non voglio entrare nel merito delle singole proposte, su cui si dibatte a sufficienza e su cui rimando al bel libriccino di Granaglia e Bolzoni. Intendo piuttosto esporre meglio quella che secondo me è una delle proposte più interessanti di politiche economiche per la piena occupazione e di lotta alla povertà, facendone emergere le caratteristiche per contrasto con l’approccio “disoccupazionale” e assistenziale delle suddette proposte.
L’idea è, nella sua radicalità, molto semplice e parte dall’idea che vi sia una gran quantità di disoccupazione involontaria, fatta di persone che, a causa di mancanza strutturale di posti di lavoro, non riescono a trovare lavoro neanche abbassando le proprie pretese al minimo vitale, e che quindi il miglior punto di partenza per combattere la povertà sia quello creare posti di lavoro aggiuntivi mediante cui dare impiego alle singole persone.
Il piano è il seguente: lo stato ha il compito di offrire un lavoro a tutte le persone disposte a lavorare al salario minimo stabilito. L’obiettivo è duplice fin dall’inizio: ottenere la piena occupazione creando nuovi posti di lavoro e stabilire un pavimento, vero ed efficace, alla dispersione dei salari verso il basso, cioè alla presenza di posti di lavoro che danno stipendi inferiori alla soglia di povertà. A questi si aggiungono altri obiettivi di rafforzamento macroeconomico: rafforzamento della domanda aggregata tramite il sostegno dei redditi bassi e dell’occupazione; e stabilizzazione del valore della moneta attraverso l’intervento anticiclico del programma e rallentando le possibili pressioni al ribasso e al rialzo[2].
La strategia è che lo stato, nelle sue diverse amministrazioni e in collaborazione anche con il terzo settore, il no-profit e con le cooperative di lavoratori, offra un lavoro a tutti coloro che sono disponibili e pronti a lavorare allo stipendio stabilito. Il punto fondamentale è ovviamente lo stipendio. La tesi fondante del programma è che il salario fornito debba collocarsi al livello base, cioè al salario minimo dove esso esiste, oppure, dove non esiste, a poco sopra la soglia di povertà. Ma prima di entrare nel vivo della questione dello stipendio, sono da notare gli altri aspetti. A differenza delle altre politiche sociali, questa è, prima di tutto, su base strettamente individuale, cioè non varia a seconda della composizione e situazione economica familiare (nel caso in cui in una famiglia più persone partecipino al programma ciò li porterebbe abbastanza al di sopra della soglia di povertà calcolata su base familiare), e del tutto volontaria e incondizionata: può partecipare solo chi vuole effettivamente fare quei lavori per quella paga; il soggetto può scegliere tra i diversi progetti attuati quello a cui partecipare. A chi non vuole lavorare nel programma sono destinate le altre forme di integrazione del reddito, nella forma più esplicita dell’assistenza sociale e, ovviamente, dei normali assegni di disoccupazione calcolati sul reddito appena interrotto (e naturalmente sulle modalità con cui le varie politiche sono complementari e alternative vi potranno essere scontri politici rilevanti: nella misura in cui tale politica sostituisse completamente le altre politiche questa politica si avvicinerebbe abbastanza a una situazione di “lavoro forzato”, oppure se si volesse incentivare questo tipo di sostegno potrebbe verificarsi una pressione per diminuire e irrigidire le altre forme di sostegno al reddito[3]).
Il livello dei redditi
Per cui, per stabilire la soglia del reddito base, se si prende in considerazione l’Italia in cui non c’è un vero e proprio salario minimo orario, occorre stabilire il livello della soglia di povertà. Alcuni studiosi hanno preso come riferimento il reddito minimo orario basandosi sul fatto che in Francia è stabilito a 8,5 euro l’ora, e hanno tolto 50 centesimi in base alla media della differenza dei costi della vita e di altri valori[4].
Questo procedimento, purtroppo, mi pare non corrispondente in toto all’idea originaria, per cui pare più preciso procedere all’inverso. Il livello di paga oraria offerto dal programma dovrebbe essere insomma stabilito a ritroso, a partire dalla soglia di povertà. A questo proposito possiamo riprendere la documentazione Istat 2015:
«Le soglie rappresentano i valori rispetto ai quali si confronta la spesa per consumi di una famiglia al fine di definirla o meno in condizione di povertà assoluta. Ad esempio, per un adulto (di 18-59 anni) che vive solo, la soglia di povertà assoluta è pari a 819,13 euro mensili se risiede in un’area metropolitana del Nord, a 734,74 euro se vive in un piccolo comune settentrionale, a 552,39 euro se risiede in un piccolo comune del Mezzogiorno»[5].
Per cui, occorrerebbe prendere a riferimento il valore valido per una persona singola, e per comodità utilizzeremo la descrizione Istat del 2015[6].
La cifra deve quindi necessariamente variare in base alle regioni. Adesso, per pura comodità espositiva utilizzeremo questo dato per fare una media pari a 687 euro mensili (819 + 555 /2), e che potremmo certamente arrotondare al rialzo di un 5-10%, facendolo arrivare, per esempio, a 750 euro per superare di poco la soglia di povertà. Una volta stabilita questa, si tratta di vedere che cosa sarebbe opportuno e giusto che una politica economica statale per la piena occupazione chiedesse in cambio a un cittadino-lavoratore per questa cifra. Quindi, prima di tutto, quante ore di lavoro. I calcoli base sono due, o si prendono le classiche 40 ore settimanali, oppure si prendono le 36 ore dei dipendenti pubblici. A questo si può aggiungere la considerazione che, come propone per esempio Randall Wray, si potrebbero rendere disponibili una più ampia varietà di accordi orari. Per cui, è mia opinione che naturalmente maggiore è la scelta e meglio è, ma che in linea di principio non vi siano ragioni molto forti per richiedere un orario superiore alle classiche 36 ore degli altri uffici pubblici, se non nel quadro di determinati programmi lavorativi e temporanei, specie se si considera che la cifra è comunque alquanto bassa. Quindi le 750 euro mensili diventano, divise per 144 ore mensili, 5,20 euro l’ora. E’ una cifra bassa in effetti, che potrebbe pertanto essere forse arrotondata a 5,5 euro. A questo si aggiunga che se il programma comprendesse la possibilità di part-time, per esempio di 20-25 ore la cifra mensile verrebbe a ridursi sensibilmente (80 ore x 5 euro = 440 euro al mese). A questo livello, è facile vedere come sarebbe concreto il rischio di ripetersi dei medesimi problemi di sottoccupazione e di lavoratori poveri, specie nel mezzogiorno.
Le cifre diversificate in base alle regioni potrebbero essere poi pensate per disincentivare un’eccessiva emigrazione dal sud: una minore differenziazione regionale fornirebbe, per esempio, una vantaggio relativo di lavorare al sud e negli altri comuni di provincia in cui il costo della vita è minore.
Per evitare i fenomeni di lavoratori poveri, il livello dello stipendio potrebbe però forse essere orientato ad una più forte politica di sostegno ai redditi bassi, aumentando il salario orario, ipotizzando così 750 euro per 30 ore, e alzando quindi il salario orario a 6,25 euro l’ora, e di dare una scelta in base ad aliquote di ore (scegliendo tra 20 ore, o 25 o 30 o 35 o 40; sempre a 6,25 l’ora: chi opta per le 40 ore arriva fino a 1000 euro precisi al mese, il 20% sopra la soglia di povertà – in una città del nord quindi avremmo: 820 + 5% = 860 euro al mese di base per 30 ore alla settimana, cioè 7,16 euro/h, a cui aggiungendo il 20% delle 40 ore, si arriverebbe a 1146 euro).
L’organizzazione
Per quanto riguarda l’organizzazione del programma, è a mio avviso particolarmente utile confrontare questo programma con il programma che negli ultimi anni fornisce un rilevante contributo di ammortizzatore sociale e di formazione sul campo a una grande quantità di giovani italiani: il Servizio Civile nazionale e regionale.
Data l’impostazione del programma: gestito dal pubblico, orientato alla fornitura di beni e servizi pubblici essenziali, in cooperazione e coordinazione con gli attori del terzo settore, e considerando anche che lo stipendio non è così alto, mi è sembrata particolarmente opportuna l’analogia con questo programma, che ormai dopo anni ha un ruolo alquanto istituzionale. L’esperienza del Servizio Civile Nazionale retribuito ci fornirebbe, in quanto Italia, una base a mio avviso ottimale per costruire una politica per l’occupazione di questo tipo, e per valutare una serie di elementi (in Italia, insomma, sarebbe meno possibile che altrove affermare “l’impossibilità” del programma proprio perché esso lo si sta in realtà già facendo, si tratterebbe di incrementarlo, modificarlo e integrarlo in vari modi).
Primo punto, lo stipendio. Il programma del Servizio Civile dichiara espressamente sul suo sito che quello non è un lavoro ma un servizio reso alla comunità e retribuito a mo’ di abbondante rimborso spese. Il Servizio comprende 30 ore a settimana per un rimborso di 433 euro al mese (pari a 3,9 euro/h). Lo stipendio sarebbe dato ovviamente dallo stato ma molti lavoratori si troverebbero ad essere dipendenti o soci delle associazioni del terzo settore.
Secondo, le condizioni di accesso. Il Servizio Civile inserisce solo persone dai 18 ai 29 anni, laddove il JG comprende ovviamente tutti i maggiorenni. Il JG comprenderebbe però tutti gli altri benefit connessi al pubblico impiego, come contributi, ferie e malattie, al pari degli altri dipendenti pubblici. Terzo, la durata, se il Servizio civile è possibile farlo solo una volta nella vita della durata di un anno, il lavoro JG può essere anche, nella peggiore delle ipotesi, “a tempo indeterminato”. Contrariamente, quindi, dalle politiche per il sostegno al reddito dei disoccupati l’impiego nel programma non è limitato nel tempo e non sarebbe quindi condizionato all’uscita nel tempo più breve possibile da quel lavoro in direzione di un altro impiego “più vero”.
La logica generale del programma
Uno degli obiettivi primari di questa politica è di fornire un’àncora per la definizione del valore minimo del lavoro, mediante la delimitazione delle oscillazioni e dispersioni del costo del lavoro. La finalità è quindi quella di organizzare una politica prettamente anti-ciclica focalizzata sulla piena occupazione, riducendo la dispersione verso il basso del costo del lavoro e riducendo quindi la volatilità e le oscillazioni del costo del lavoro connesse agli andamenti del ciclo dell’occupazione. Wray e Mitchell prendono ad esempio le politiche economiche di scorte di alcuni beni che hanno lo scopo proprio di stabilizzare il prezzo di questi beni. In Australia, per esempio, la lana rientra in tali programmi[7]. Si tratta di stabilire un prezzo minimo sotto il quale la forza lavoro non può essere pagata, non attraverso norme e regole che poi è difficile controllare, ma attraverso la costante offerta di posti di lavoro pagati al minimo: quando si presenta un eccesso di offerta, cioè di disoccupati, lo stato diventa un acquirente di ultima istanza, allo scopo di non far scendere il costo sotto un certo standard; quando invece il ciclo riparte, grazie anche alla stabilità della domanda fornita dal programma, i lavoratori potranno uscire dal programma via via che troveranno lavori ad un prezzo appena superiore quello offerto dal programma. La base dell’idea sarebbe quindi quella che l’occupazione di questo programma dovrebbe essere la più elastica possibile: capace di assorbire immediatamente i disoccupati, ma anche capace di lasciarli uscire alle prime avvisaglie di offerte di lavori meglio pagati, e senza troppi problemi. E’ anche per questo motivo che lo stipendio pagato dal Programma, per quanto irrevocabilmente di poco superiore alla soglia di povertà, e indicizzato di anno in anno, non può essere troppo superiore in modo tale da concorrere con l’occupazione privata e pubblica e di perdere la sua funzione caratteristica di ammortizzatore sociale temporaneo.
Quanto, poi, lo stato utilizzerebbe tale programma per sostituire il pubblico impiego è una questione politica che non riguarda direttamente proposte di questo tipo (ci torneremo nel paragrafo finale). L’idea del programma è che esso sia prima di tutto aggiuntivo al livello di spesa pubblica esistente, e alla maggior parte possibile delle spese sociali, in quanto dovrebbe essere finalizzato alla piena occupazione di chi non trova altri lavori che garantiscono una dignitosa sussistenza, sostenendo al contempo la domanda aggregata.
E sempre a questo riguardo, è forse superfluo ma necessario ricordare che in nessun caso questo programma dovrebbe coinvolgere le aziende imprenditoriali private, in modo da evitare che queste sostituiscono i lavoratori con quelli pagati dallo stato. (Delle eccezioni interessanti possono essere fatte per la costituzione di imprese cooperative di lavoratori, vedi Wray 2015).
La questione del finanziamento
Arriviamo adesso alla questione del finanziamento. Si tratta della questione più complicata, da un lato perché ovviamente non si può sapere in partenza quante sono le persone che parteciperanno, dall’altra perché dipende anche dalla relazione con tutte le altre politiche di sostegno al reddito che questa politica potrebbe sostituire o integrare o rimodulare. Vi è poi il fatto di contabilizzare le diverse forme di reddito differito e le tasse; e naturalmente la questione della sostenibilità macroeconomica.
Un calcolo molto approssimativo possiamo farlo ipotizzando che per 700 euro di stipendio netto mensile, sommando tasse e contributi lo stato debba sborsare mensilmente attorno ai 900-1000 euro a persona. Se si considera che a Gennaio 2016 il numero ufficiale dei disoccupati era pari a 2.951.000, (all’ 11,8%) e che la cosiddetta disoccupazione fisiologica e frizionale è più o meno attorno al 2-3%, di questi 3 milioni possiamo aspettarci che circa 2.500.000 siano quelli che sarebbero propensi a lavorare per un salario decente. A questi andrebbero aggiunti comunque tutti quelli che, specie nel meridione ma non solo, lavorano a livelli schiavistici per cifre inferiori (vedi alla voce caporalato), e chi trova solo lavori estremamente saltuari e con orari incerti (contratti a chiamata e a zero ore, part-time involontari) che potrebbero optare per i lavori del programma. In Italia i sottoccupati che dichiarano di voler lavorare più ore rispetto agli orari che fanno sono circa altri 3,5 milioni. Sarebbe quindi facile arrivare ad almeno circa 4 milioni di persone in cerca di lavoro che potrebbero voler lavorare nel programma. 4 milioni per 1000 euro al mese, fanno 4 miliardi di euro al mese, che per 12 mesi farebbero 48 miliardi di euro all’anno, per i soli stipendi. Includendo alcune spese di gestione, fornitura di mezzi e strumenti e di supervisione, potremmo facilmente arrivare attorno ai 50 miliardi, ma forse di più. Il finanziamento del programma di JG non dovrebbe essere finanziato con aumenti delle tasse.
50 miliardi di euro corrispondono a circa il 2,5% del Pil italiano, e quindi più o meno al 5% della spesa pubblica. Altre stime, come quella prima citata, arrivano a 34 miliardi e al 2% del Pil.
La stima differente fatta dai già citati Mastromatteo e Esposito, calcolano un salario orario di 8 euro, per 1500 ore annuali, pari a 1000 euro al mese per 1,7 milioni di persone. Stimando così una spesa pari a 34 miliardi di euro. E notano che nel 2012 lo stato ha speso 29 miliardi in sussidi di disoccupazione e politiche per l’occupazione, così che solo 5 (o 16) sarebbero quelli strettamente aggiuntivi.
Come sarebbe possibile per uno stato che fatica a trovare pochi milioni per qualsiasi cosa, trovare una cifra simile? Qui si entra in tutta la questione classica e usurante del “da dove vengono i soldi?”.
Senza voler ripetere e dibattere un tema di fondamentale importanza e naturalmente dibattuto più volte da tanti autori importanti, vale comunque la pena ricordare una serie di punti essenziali. Primo, qualsiasi paese moderno, grande ed economicamente sviluppato, come è quello italiano, potrebbe tranquillamente permettersi di emettere il 2% per cento del Pil in obbligazioni. Naturalmente sarebbe opportuno che vi fosse collaborazione tra alcuni istituti finanziari per detenere questi titoli a lungo termine. Il primo tra questi dovrebbe essere ovviamente la Banca centrale, ma come sappiamo i paesi europei da questo punto di vista sono alquanto “impediti”. E’ chiaro che la BCE potrebbe farlo in qualsiasi momento, ma che è per ragioni schiettamente ideologiche[8] che si ritiene immorale e/o economicamente inefficace nel lungo termine una politica di questo tipo[9]. Lo stato italiano potrebbe farlo comunque senza uscire dall’euro? Probabilmente sarebbe possibile, facendo rientrare i titoli emessi per il JG nell’ambito del programma di Quantitative Easing, ma ci si scontrerebbe, oltre agli ovvi impedimenti politici e all’assurdità delle istituzioni della moneta unica, con il secondo problema, quello del saldo con l’estero. Se i rapporti di competitività e le ragioni di scambio tra le nazioni non variano, con un aumento della spesa aggregata le importazioni aumenteranno più che proporzionalmente all’aumento del reddito, costringendo il settore finanziario privato ad accumulare debiti esteri, particolarmente volatili (questa è la radice della crisi dell’euro, per chi ancora pensasse che si è trattato dello stato brutto e corrotto). Per questo, la possibilità di svalutare va vista come una componente essenziale per potersi permettere politiche più espansive, non solo come uno stimolo espansivo indipendente. Il terzo punto è quello dell’inflazione: «ma finanziare in deficit non genera inflazione?» Abbiamo visto che l’incremento netto di spesa si aggirerebbe attorno ai 20 miliardi di euro, cioè un aumento del deficit inferiore al 2% del Pil. E’ vero che se l’economia non risponde con relativa prontezza allo stimolo della domanda, ciò può significare che vi sono strozzature nell’offerta e bassa propensione agli investimenti delle nostre aziende. Ma da un lato occorre ricordarsi che questa è una conseguenza della crisi industriale causata dal crollo della domanda e che quindi occorre agire d’urgenza in senso opposto, e dall’altro che, come abbiamo notato prima, queste politiche potrebbero essere orientate alla fornitura di infrastrutture e di servizi per l’aumento dell’efficienza produttiva dell’apparato burocratico e amministrativo dello stato, cioè investimenti pubblici ad alta intensità di lavoro. Uno dei punti principali di interesse di questa proposta è che ci invita a riflettere sulla quantità di possibili beni e servizi che sarebbe possibile fornire alla cittadinanza aumentando il tasso di occupazione, invece di dare per assodato il fatto che si sia costretti e rassegnati a far restare le persone inoperose. Occorre insomma ricordarsi dell’enorme potenziale umano e produttivo, in particolare giovanile, che la disoccupazione spreca.
Naturalmente questo non significa che sia “produttivo” solo il lavoro remunerato e “ordinato”da qualcuno, che sia lo stato o le imprese. E a questo proposito ci si collega ad un aspetto particolarmente interessante, che collega questa proposta all’idea di “reddito di partecipazione” proposta da Richard Atkinson (2015). La sua idea è sostanzialmente molto simile a questa del JG, ma in cui fra i lavori in contropartita del reddito vengono inserite anche attività di volontariato e di studio e formazione, ovviamente dimostrabili.
Una modalità intermedia, quindi, potrebbe essere quella di calcolare i 700-750 euro in base ad un orario ridotto, per esempio 25 o 30 ore, e dando la scelta dell’orario come si diceva prima, così che le persone possono avere del tempo per dedicarsi ad altre attività di formazione, tirocinio, volontariato ecc.: impostando la soglia a 30 ore, si hanno, come si diceva prima 6,25 euro l’ora, così che chi facesse solo 25 ore, per esempio, prenderebbe comunque 625 euro, (e chi ne fa 40 arriva, come si diceva prima a 1000 euro).
- Criticità
Una delle questioni più problematiche è, come abbiamo già accennato, quella del livello dello stipendio alla soglia di povertà. Diversi autori accusano insomma questa politica di assomigliare un po’ troppo all’ “Esercito industriale di riserva” di marxiana memoria. Alcuni accusano per esempio il fatto che l’idea di creare piena occupazione senza inflazione è un po’ un controsenso, perché se la piena occupazione non genera inflazione significa che è un’occupazione troppo povera per poterla considerare un’occupazione sana e dignitosa, e che non fornisce un vero potere contrattuale ai lavoratori. E fanno infatti notare che in alcuni paesi negli ultimi decenni si è assistito ad un aumento dell’occupazione ma al prezzo di un’espansione vertiginosa dei “lavoratori poveri” e che solo per questo motivo l’inflazione è rimasta bassa e stabile: a causa di una finta piena occupazione, fatta di sottoccupazione e di working-poor. Se si considerasse non il livello di disoccupazione ma di sottoccupazione, si vedrebbe infatti che l’assenza di inflazione si spiega benissimo, perché in realtà la piena occupazione non è mai tornata. Il mantenimento di una massa di popolazione ad un livello salariale sulla soglia della povertà (per poco non povero) non fornirebbe quella base di scarsità di offerta lavorativa grazie a cui i lavoratori possono lottare e strappare salari più elevati aumentando la quota di reddito che va ai salari, poiché sarebbe sempre possibile assumere nuovi lavoratori dal bacino del programma a paghe appena sopra la soglia di povertà. Il discorso sarebbe molto ampio e complesso,e richiederebbe dati ed esempi empirici legati anche al contesto istituzionale, è quindi difficile stabilire a priori l’entità di tali effetti. E’ importante però ricordare che attualmente la pressione al ribasso è trainata da una massa enorme di disoccupati che guadagnano zero; e che l’esercito industriale di riserva di Marx era composto da persone temporaneamente senza lavoro, non di persone che lavoravano con stipendi bassi. Una delle critiche più forti che una tale proposta subisce è quella di essere insostenibile in quanto alimenterebbe troppo la domanda, l’inflazione e il potere dei lavoratori rispetto a impieghi pagati ben al di sotto della soglia di povertà (che, si dice, non potrebbero permettersi di pagare stipendi più alti). E’ quindi curioso che venga accusata anche dell’esatto opposto. Ricordiamo che uno degli obiettivi è quella di stabilizzare la domanda, il ciclo economico e il valore della moneta e che quindi il fatto di smorzare in qualche modo i possibili picchi di rivendicazione salariale che superino gli andamenti della produttività complessiva, non significa che il programma non fornisca un importante sostegno al reddito delle persone e un maggiore potere contrattuale a determinate categorie di lavoratori. Naturalmente potrebbe esserci il rischio che il sostegno ai redditi inferiori alla soglia di povertà possa in certi casi spingere al ribasso i redditi di poco superiori, con la conseguenza di uno schiacciamento dei salari in direzione della soglia di povertà. Si tratta del rischio concreto di un possibile effetto analogo di “esercito industriale di riserva”, anche se a un livello superiore di reddito: è vero che se c’è una soglia di 700 euro ben più difficilmente potrò azzardare a offrire 400 euro, ma può invece accadere che chi per un lavoro analogo ne prendeva 1500 si trovi costretto ad accettarne 800. Questo effetto dipende dall’estensione del bacino di lavoratori nel programma, e dal grado elasticità in cui si incentiva l’uscita: meno le persone e maggiore il salario rispetto alla soglia, e minore sarà la pressione aggregata ad accettare lavori ad un prezzo appena superiore al salario del programma. Occorrerebbe quindi sviluppare dei relativi strumenti difensivi.
La stessa dinamica rischierebbe di verificarsi, in una misura forse ancora maggiore nel pubblico impiego. Questa è a mio parere il maggiore punto di criticità, di fondamentale importanza in quanto rappresenterebbe un rischio ancora più concreto e molto grave, fino ad inficiare questa proposta nel complesso. Il programma di JG, rischierebbe di andare a sostituire i normali posti di lavoro nel pubblico impiego a fronte di persone in cerca di lavoro che costano meno e sono disposte a lavorare per una paga più bassa. Questo rischio è già infatti in atto anche in relazione al Servizio Civile: il blocco del turn-over e in generale delle assunzioni è stato largamente compensato assumendo i giovani che lavorano con il servizio civile, impiegati per fare lavori utili ed essenziali, spesso ad alta qualificazione (educatori e formatori, insegnanti di lingue ecc.) con un paga che come abbiamo visto equivale, nel Nord-Italia, alla metà della soglia di povertà. Questo potrebbe verificarsi in particolare in paesi come l’Italia in cui il cronico basso livello di occupazione comporterebbe un rischio di sovradimensionamento dei programmi JG, e quindi spendere costantemente una cifra elevata in impieghi pubblici a scarso valore aggiunto, minando una politica di impieghi pubblici di alto livello e utili ad una programmazione economica di alto livello e articolata in base ai bisogni reali di una società avanzata (formazione, consulenza, programmazione, informatica, conservazione dell’ambiente e tutela degli ecosistemi, sanità, servizi pubblici, economia circolare, politiche energetiche e ingegneristiche ecc.). Il JG, insomma, come dispositivo di dequalificazione progressiva dei servizi pubblici, e l’impiego pubblico come ammortizzatore sociale di massa di bassa qualificazione. E’ quindi importante che questo programma non vada certo a rappresentare la modalità ufficiale del pubblico impiego, neanche per i lavori a bassa qualificazione (operatori ecologici, netturbini ecc.), e che non si ponga assolutamente in competizione con i contratti di lavoro nazionale del pubblico impiego. Un modo può forse essere quello di diminuire l’orario di lavoro dei lavoratori nel programma, così da rendere più evidente il carattere “aggiuntivo” dei lavoratori rispetto all’organico ufficiale di associazioni e uffici pubblici; oppure stabilire degli obblighi contrattuali di futura assunzione allo stipendio ufficiale del pubblico secondo il Ccn. Altre possibilità possono e devono essere pensate, in quanto si tratterebbe di un elemento che renderebbe questo programma decisamente dannoso e controproducente, e che farebbe preferire quindi tutte le classiche politiche di sussidio di disoccupazione condizionate all’occupabilità (la flex-security classica), in cui si colloca anche la proposta dei pentastellati. L’occupazione nel programma JG deve avere invece carattere anticiclico, flessibile e il più possibile temporaneo; si tratta di un ammortizzatore sociale che serve a sprecare il minor numero possibile di capacità umane, non certo a sostituire i lavoratori delle pubbliche amministrazioni che si occupano della cosa pubblica, che avrebbero anzi bisogno di rafforzamento, risorse, strumenti e ampliamento dell’organico ad elevata qualificazione[10].
Un altro fattore critico fondamentale è quello del rapporto con la situazione familiare. Uno dei componenti dell’ISEE è infatti anche quello se si vive in casa di proprietà oppure si è in affitto. In linea di principio lo stipendio JG è uguale per tutti e non fa distinzione tra chi è in affitto e chi no, avvantaggiando quindi questi ultimi, considerando che la spesa per affitto è, specie in certe città, la voce di gran lunga maggiore del bilancio famigliare. Un parte di questa cifra è connessa con le differenziazioni regionali: a Roma e Milano il costo della vita è certamente maggiore che a Eboli. Su questo non ho risposte, anche se l’ISEE verrebbe comunque fatto in base ai redditi percepiti dal programma e quindi chi paga l’affitto svilupperà poi altre agevolazioni indipendenti. Lo stesso vale per chi vive da solo o chi vive con altri che ricevono la paga dal programma: a causa delle economie di scala domestiche chi vive in più persone risparmia. Il punto importante è quindi quello di evitare che l’aumento della domanda aggregata dovuto a queste politiche venga assorbito da aumenti dei prezzi di certi beni, in particolare penso all’affitto. Data l’importanza di questa spesa per il reddito reale delle persone, il programma JG non può quindi evitare e anzi richiede, la necessità di politiche di calmieramento dei prezzi, in particolare in alcune città, come parte delle vere “riforme strutturali” di moderazione dei prezzi.
Altre criticità sono: la quantità di spesa sostenibile, e il rapporto con gli altri sussidi. Se uno stato può permettersi al massimo 40 miliardi di spesa in deficit aggiuntiva, non sarebbe meglio utilizzarne 20-30 per il programma JG e gli altri 10-20 per altri investimenti pubblici per la modernizzazione dell’economia? Rischierebbe di essere poco produttivo nel lungo termine occupare una spesa rilevante per fornire lavori a bassissima o nulla qualificazione, togliendola ad altri processi di sviluppo, innovazione, formazione, modernizzazione dell’economia pubblica e privata.
Mentre per quanto riguarda la questione degli altri sussidi, è un tema classico degli studi economici su queste politiche l’argomento secondo cui, i disoccupati, tra non lavorare prendendo un sussidio anche povero e lavorare ad un salario di poco più alto, preferirebbero non lavorare. In realtà questa tesi è stata anche abbondantemente smentita, ma ci indica comunque una possibile questione, si tratta quindi di studiare le proporzioni tra i vari sussidi (in Italia in ogni caso non c’è né l’uno né l’altro!).
- Conclusioni
In conclusione, rimandando ovviamente a necessarie ulteriori e più approfondite analisi e simulazioni, mi sembra di poter dire che, in base alle criticità rapidamente elencate, la politica dei piani di lavoro garantito potrebbe non rappresentare, nonostante la dimensione allarmante della disoccupazione in Italia, uno strumento ottimale di fuoriuscita da una crisi profonda come quella italiana di questi anni, in quanto rischierebbe di essere sovradimensionato e di finire per confliggere in parte con la necessità di combattere più frontalmente la dinamica della deflazione salariale[11], che tali programmi sembrerebbero riuscire a combattere solo per quanto riguarda la parte più bassa della distribuzione dei redditi; pur con indubbi ed evidenti effetti positivi per i disoccupati e i lavoratori più svantaggiati. A parte questo, però, una volta ritornati a livelli di disoccupazione pre-crisi (7-8%) esso sembra essere un metodo di ammortizzatore sociale ottimale per soddisfare in modo elastico quel livello di disoccupazione più difficilmente assorbibile nei canali tradizionali di una buona occupazione pubblica e privata. Oltre a costituire certamente un modo ottimale per affrontare “normali” crisi cicliche.
Ovviamente, quindi, questa politica non fornisce risposte a tutti i problemi, ma mi sembra che se ben architettato, e organizzato in chiave non sostitutiva di pubblico impiego ma aggiuntiva ad una situazione che si approssima a un livello più basso di disoccupazione di quello attuale, possa comunque costituire un passo importante per dare un quadro teorico coerente all’idea di “diritto al lavoro”.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Atkinson R., Disuguagliaza. Che cosa si può fare?, Cortina Raffaello, Milano, 2015
Bolzoni M. e Granaglia E., Il reddito di base, Ediesse, 2016.
Mastromatto G. ed Esposito L., Programma di impiego pubblico di ultima istanza, vedi al sito: http://memmt.info/site/wp-content/uploads/2016/04/Programma-di-Impiego-Pubblico-di-Ultima-Istanza.pdf
Mazzucato M., Lo stato innovatore, Laterza, Milano, 2014.
Mitchell W., The Buffer Stock Employment Model and the NAIRU – The Path to Full Employment, vedi al sito:
http://e1.newcastle.edu.au/coffee/pubs/wp/1997/bse.pdf
Mitchell W. e Wray R., Full Employment through Job Guarantee: A Response to Critics, Working Paper No. 39 January 2005
Sawyer M., Employer of last resort: could it deliver full employment and price stability? Journal of Economic Issues, 37 (4). 881 – 907, 2003.
Van Parijs P., Il reddito minimo universale, UBE, Milano, 2013.
Wray R., Moderrn Money Theory, Palgrave Macmillan, NY, 2015, in particolare Cap. 8, Una politica per la piena occupazione e la stabilità dei prezzi, tradotto in italiano da me, reperibile al sito:
[1] Si vedano le discussioni sul network www.bin-italia.org. Oltre al classico VanParjis Il reddito minimo universale, UBE, 2013.
[2] Questa fa parte degli aspetti di criticità del programma. Secondo gli autori questo programma mirerebbe a creare piena occupazione senza inflazione, cioè senza che le pressioni al rialzo sui salari superino in modo prolungato gli incrementi di produttività. Il punto è politico-istituzionale: quanto questo programma faciliterebbe o sostituirebbe una centralizzazione della politica dei redditi in funzione anticiclica e stabilizzante? Una funzione spesso attribuita a grandi sindacati centralizzati (con i relativi rischi di “cattura ideologica”).
[3] In molti paesi, tra cui gli Usa e anche il Regno Unito, i test dei mezzi sono spesso e volentieri altamente intrusivi, comprendendo test antidroga, divieto di fare figli, obbligo a vivere con i genitori o altri parenti in caso ci siano ecc.
[4] Vedi Mastromatteo ed Esposito:
[5]Vedi: http://www.istat.it/it/files/2016/07/La-povert%C3%A0-in-Italia_2015.pdf?title=La+povert%C3%A0+in+Italia+-+14%2Flug%2F2016+-+Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf
[6] Chiunque può andare sul sito Istat e vedere quanto è povero o no rispetto ai suoi corregionali: http://www.istat.it/it/prodotti/contenuti-interattivi/calcolatori/soglia-di-poverta
[7] Vedi di William Mitchell The Buffer Stock Employment Model and the NAIRU -The Path to Full Employment.
[8] Ideologiche nel senso di riferite a schemi teorico-scientifici che finiscono, intenzionalmente o meno, per essere funzionali e per fornire giustificazioni alla distribuzione esistente delle risorse materiali e simboliche (prestigio, autorevolezza e accesso a saperi tecnico-scientifici).
[9] L’idea è che queste sarebbero spese perlopiù improduttive che aumentano la spesa corrente dello stato, e che quindi “nel lungo periodo” ciò disincentiverebbe la produttività in quanto le imprese verrebbero “drogate” dalla spesa pubblica e sarebbero disincentivate ad investire. Qualcosa di vero in questo forse può esserci, ma non si tratta affatto di una critica al programma quanto piuttosto di una sua regolazione opportuna, orientata a settori non di mercato ma di interesse infrastrutturale, come determinati servizi di formazione e assistenza, o per aumentare e sostenere la competitività delle imprese nazionali, come anche per esempio una vera informatizzazione della pubblica amministrazione, fra le altre cose. Occorre poi naturalmente ricordare che a livello contabile, il settore privato aggregato può avere dei surplus (profitti e risparmi) solo se il pubblico o il resto del mondo sono in deficit con il nostro settore privato, e siccome tra i due il soggetto finanziariamente più solido è il pubblico, il deficit di quest’ultimo è comunque essenziale al fine di un settore privato prospero. Sulla quantità e sui modi ovviamente si deve discutere.
[10] Da questo punto di vista è particolarmente interessante una proposta politica macroeconomica di assunzioni pubbliche qualificate che viene portata avanti da un gruppo di studiosi dell’Università di Torino. La proposta consiste essenzialmente nell’assunzione diretta di 1 milione di nuovi lavoratori in particolare giovani laureti ad alta qualificazione per sopperire ad una cronica mancanza di personale, in particolare qualificato, all’interno della pubblica amministrazione italiana: 1300 euro netti per 13 mensilità; per un costo tra i 15 e i 20 miliardi di euro. Finanziato con una mini-patrimoniale sulla ricchezza finanziaria della durata di soli tre anni, dopo i quali la crescita economica ne consentirebbe l’autofinanziamento.
Vedi: http://www.propostaneokeynesiana.it/presentazione.php
[11] Sulla base, per esempio di una politica che metta insieme la proposta politica citata alla nota 10, e altri tipi di interventi in investimenti pubblici e infrastrutturali, in “piccole opere” e sul tipo di cui parla Mariana Mazzucato, vedi Lo stato innovatore, Laterza. Occorre ricordare che il livello di occupazione e di domanda aggregata pre-crisi, nell’ambito delle istituzioni attuali, era, e sarebbe, “insostenibile” in quanto connesso a deficit commerciali insostenibili in assenza di sovranità monetaria. Da qui parte la logica delle politiche deflattive e di austerità, che mirano ad abbassare la domanda interna in maniera, appunto, “strutturale”, moderando la risalita dei redditi al fine di far derivare la crescita dalla domanda estera e dalle esportazioni (la “competitività”). Questo significa, ovviamente, che all’interno di questi assetti monetari e commerciali internazionali il ritorno a un livello di disoccupazione pre-crisi e possibilmente più basso, sarebbe o impossibile o possibile solo a un livello salariale decisamente basso. Affinché il suddetto programma JG non si inserisca in questa dinamica occorrerebbe quindi soddisfare due requisiti: da un lato, sostituire il sistema euro (per i motivi appena richiamati) e dall’altro, successivamente, assicurarsi che il bacino di questi lavori non sia né troppo ampio né a salari troppo bassi, due esiti che sarebbero inevitabili all’interno di queste istituzioni.