
di Mario Seccareccia e Marc Lavoie
Alcune intuizioni keynesiane e post-keynesiane fondamentali, con un’analisi dei possibili meccanismi per raggiungere una ripresa sostenuta.
Proprio come la Grande Depressione rimase impressa nelle menti di economisti e responsabili politici per un lungo periodo di tempo, senza dubbio lo fu anche l’esperienza successiva a quella della crisi finanziaria. Nel primo caso, la lezione principale che la maggior parte degli economisti mainstream erano arrivati a credere fu che, come aveva sostenuto anche A.C. Pigou nel 1943, salari e prezzi semplicemente non fossero diminuiti abbastanza affinché si riducessero ancora di più i salari reali per assicurare il ritorno ad un elevato livello di occupazione e generare un’adeguata ricchezza. Di conseguenza, la colpa della crisi cadde di nuovo paradossalmente sulla rigidità dei salari e dei prezzi così che si riteneva ancora necessaria una forte dose di deflazione. Ma dal momento che (secondo loro) il meccanismo di mercato era ancora troppo lento per aggiustare salari e prezzi verso il basso, fu richiesta anche una qualche forma di politica fiscale del New Deal per ridurre la disoccupazione.
Sebbene questo argomento rimanga in valsa ancora oggi, e, in una sua bizzarra variante, divenne la tipica spiegazione “keynesiana” da libro di testo che spiega il fenomeno della ‘disoccupazione involontaria’ (caratterizzata da salari statici derivati dall’illusione monetaria dei lavoratori), c’era anche un’altra spiegazione che si trova discussa fin dal 1937 nell’analisi IS-LM di Hicks, successivamente sviluppata da Patinkin nel 1948. Il problema coinvolge anche la rigidità dei prezzi ma quest’ultima circostanza accadde in quanto i tassi d’interesse erano rimasti fermi al loro livello più basso (ovvero, nella cosiddetta trappola della liquidità). La colpa stavolta ricadde sulla rigidità dei tassi di interesse che impedirono un’efficace auto-regolamentazione del mercato. Mentre indicava gli estremi della sua analisi di quel periodo, Patinkin venne anche in soccorso della prescrizione pigouviana contro le critiche di Fisher e di Kalechi, secondo cui il risultato di questo accrescimento di ricchezza avrebbe ottenuto tuttavia anche un simmetrico contraccolpo d’indebitamento (ai danni del settore privato) che avrebbe negato infine il primo risultato. Patinkin costruì così un argomento più focalizzato sulla difesa di Pigou e quindi sulla necessità della deflazione in fasi recessive dell’economia. Lo fece edificando un quadro politico che poggiava sul dubbio significato di un particolare tipo di effetto di ricchezza, normalmente descritto come ‘effetto reale di equilibrio’, che sottolineava l’esistenza di una base monetaria della banca centrale (detto altresì come denaro “esterno”). In questo caso, così come succede con l’effetto Pigou, il valore reale dei saldi monetari salirebbe non appena si abbassano i prezzi. E perciò, fino a quando i prezzi scendono a sufficienza, le famiglie si sentirebbero più sicure del proprio benessere, ciò che stimolerebbe la loro spesa tirando infine l’economia fuori dalla trappola della recessione. La fiducia assoluta in questi effetti di benessere e/o effetti reali di saldo costituiscono tutt’ora il cuore delle attuali spiegazioni che si trovano nei tradizionali libri di testo di macroeconomia riguardo l’importanza di avere una domanda aggregata schiacciata verso il basso relativa al livello reale dei prezzi nell’ambito produttivo.
Se ora si compie un salto in avanti di settant’anni dall’ultima Grande Recessione, noteremo che gli argomenti all’interno della narrativa mainstream sono cambiati molto poco. Ci sono alcuni, in particolare i neo-hayekiani, che vorrebbero contare su una forte dose di deflazione per “ripulire” il sistema di cattivi investimenti; in particolare ci sono alcuni dei moderni neo-wickselliani, che affermano come in una fase recessiva, anche in presenza della deflazione, non si sarà in grado di ottenere tassi reali di interesse sufficientemente adeguati per stimolare gli investimenti, a causa del tasso naturale negativo di interesse wickselliano troppo basso. Se infatti non si può ottenere un crollo dei prezzi, e i tassi di interesse reali si ostinano a rimanere bloccati, allora, per esempio, l’unica soluzione possibile che è stata offerta a partire dal 2009 dal maestro Ben Bernake è stata quella del ‘quantitive easing’ (QE). In un certo senso, quest’ultima politica svolge un ruolo analogo per ottenere l’aumento della base monetaria. In questo caso, però, non è a causa di un ragionamento patinkinesco che vorrebbe sollecitare una spesa a consumo a partire dagli esigui saldi del settore privato. Diversamente il QE si basa sulla convinzione che miliardi di dollari (helicopter money), trasferiti sul bilancio delle banche commerciali, potrebbero indurre quest’ultime a fare più prestiti, stimolando in tal modo la spesa privata. Questa politica che, viceversa, ha fatto ben poco per aumentare il volume dei prestiti, si basa sulla convinzione sbagliata che il settore bancario sia in qualche modo vincolato alle riserve (reserve-costrained), e che sia solo in attesa di qualche ulteriore liquidità da parte della Banca Centrale per riprendere a svolgere la sua funzione creditizia nei confronti di orde insoddisfatte di mutuatari meritevoli che bussano alle loro porte.
Keynes nel 1930 ed i suoi sostenitori post-keynesiani non hanno mai accettato questi argomenti. Gli stabilizzatori del settore privato difesi da Pigou e Patinkin associati al crollo dei prezzi non hanno empiricamente alcuna rilevanza in un mondo in cui la moneta è endogena, come Michal Kalecki ha già spiegato molto chiaramente nel 1944. Ma questo non significa che non ci possano essere stabilizzatori del settore privato che funzionano nelle fasi recessive. In contrasto con le idee mainstream, vorremmo sostenere che un’influenza stabilizzante così significativa del settore privato si ritrova in realtà nel comportamento dei salari reali. Secondo i post-keynesiani, ad esempio, la viscosità dei salari ha proprio un effetto macroeconomico stabilizzante. Infatti, in un periodo di grande rigidità dei salari e di caduta dei prezzi, come quella che ha caratterizzato la Grande Depressione, i salari reali della forza lavoro occupata aumentarono drasticamente e spinsero in una certa misura verso l’alto la spesa per i consumi.
Inoltre, come sottolineato da Irving Fisher e Hyman Minsky, in contrasto con le storie di crescente ricchezza reale derivante dalla deflazione, ciò che in realtà ha avuto luogo durante la Grande Depressione è stata la massiccia distruzione di ricchezza non appena i prezzi sono scesi e le imprese sono crollate sotto il peso del crescente debito reale. D’altra parte, come asserisce l’economista istituzionalista James Duesenberry, poiché le famiglie disoccupate non erano così pesantemente in debito allo stesso modo che lo sono nel mondo finanziarizzato di oggi, durante i primi anni della Grande Depressione cercarono di mantenere la loro spesa per consumi esaurendo i loro risparmi o accrescendo il loro debito. Questo fenomeno di aumento dei salari reali insieme con un calo del tasso di risparmio sono stati importanti stabilizzatori del settore privato, i quali, in assenza di politiche di stabilizzazione del settore pubblico, sono stati importanti nella costruzione di una domanda domestica durante i primi anni della Grande Depressione.
Nessuna di questi due modelli di stabilizzazione ha avuto luogo durante l’ultima Grande recessione del 2008. Al contrario, il salario reale è rimasto relativamente piatto come negli Stati Uniti, o addirittura è diminuito significativamente come ad esempio nel Regno Unito. Inoltre le famiglie erano già cadute pesantemente in debito, e avevano superato livelli storicamente senza precedenti già prima della crisi. Appena la produzione e l’occupazione sono diminuite, le famiglie hanno cercato in fretta di ridurre la leva finanziaria dando luogo ad un fenomeno che è stato descritto da Richard Koo come una recessione di bilancio. La mancanza di crescita dei salari reali e la riduzione della leva finanziaria di breve periodo erano importanti fattori destabilizzanti che non avevano caratterizzato i primi anni del 1930. Ciò suggerirebbe, quindi, che esistevano minori stabilizzatori nel settore privato durante la recente Grande recessione (2008) piuttosto che all’inizio del 1930.
Qui vorremo sostenere che uno dei motivi principali per cui gli effetti dell’ultima recessione sono stati attenuati, è dovuto al fatto che, a differenza del 1930, dove era stata completamente assente una politica fiscale attiva soprattutto nei primi anni, la troviamo invece almeno realizzata in parte durante quest’occasione.
Infatti, sia sul fronte monetario che su quello fiscale, i responsabili politici hanno agito tempestivamente da entrambi i lati, sui tassi di interesse reali che trascinano in basso verso un’area negativa, ammorbidendo così il colpo sulle famiglie debitrici, e perseguendo ciò che abbiamo descritto come una posizione politica “fiscalista” attiva subito dopo la crisi finanziaria.
Tuttavia, mentre quest’operazione è stata sufficiente per attenuare l’impatto della recessione, non ha fatto molto invece per evitare che l’economia ristagnasse, quando i governi hanno cominciato a invertire la loro politica di bilancio nel 2010. Infatti, a meno che non vi sia un forte sostegno continuo principalmente in favore di una politica fiscale, in assenza di una vera crescita dei salari e una forte spesa per i consumi da parte delle famiglie, le economie capitalistiche avanzate possono rimanere bloccate in uno stato più prolungato di stagnazione rispetto a quello che aveva caratterizzato il 1930. Senza qualche misura importante che funga da contrappeso, sotto forma di investimenti pubblici di lungo periodo, e a causa dell’inadeguatezza degli stabilizzatori del settore privato che caratterizza le moderne economie finanziarizzate, il sistema privato può essere ancora vulnerabile a ulteriori crolli in misura perfino maggiore rispetto all’epoca della Grande Depressione.
Fonte: http://ineteconomics.org/ideas-papers/blog/understanding-the-great-recession
Traduzione: Area Traduzioni – CSEPI
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