Le origini della moneta e la politica monetaria

GRIERSON, INGHAM E LA MONETA DI CONTO

di Jacopo Foggi

«Forse potremmo delucidare la distinzione tra moneta e moneta di conto affermando che la moneta di conto è la descrizione, o il titolo, e la moneta è la cosa che corrisponde a siffatta descrizione. Ora, se la stessa cosa corrispondesse sempre alla stessa descrizione, tale distinzione non avrebbe alcun interesse pratico. Ma se la cosa può cambiare, mentre la descrizione rimane la stessa, allora la descrizione può diventare assai significativa. Tale differenza è simile a quella che intercorre tra il Re di Inghilterra, chiunque egli possa essere, e re Giorgio. Un contratto che stabilisca un pagamento fra dieci anni di un peso d’oro equivalente al peso del re d’Inghilterra non è affatto lo stesso di un contratto in cui si stipuli di pagare un peso d’oro equivalente al peso di re Giorgio. E’ prerogativa dello Stato dichiarare, quando giunge il momento opportuno, chi sia il Re d’Inghilterra.»[1] 

Introduzione

Quale rilevanza può mai avere una ricerca di un numismatico come Philip Grierson sulle origini del concetto di moneta, per i dilemmi in cui si dibatte la politica monetaria nel XXI secolo? E cosa c’entrano gli antichi imperi mesopotamici ed egiziani rievocati da Geoffrey Ingham, e le tribù semi-nomadi del Nord-Europa di epoca romana, con i nostri problemi economici? Per quanto possa a prima vista apparire bizzarro, in realtà il legame è presto detto, e dopotutto neanche tanto remoto. Naturalmente non si tratta di far dipendere proposte politiche che è possibile avanzare per i giorni nostri dalle origini di un’istituzione come quella monetaria, avvenuta in contesti storici completamente diversi e probabilmente mai conoscibili interamente, quanto piuttosto della possibilità di far emergere elementi utili ad una comprensione teorica più adeguata della moneta in quanto istituzione sociale.

L’attualizzazione di ricerche sulle origini di un’istituzione sembrano  inevitabilmente avere la funzione di dare una maggiore legittimità a preferenze valoriali, fornendo loro profondità storica in funzione strettamente ideologica (Goodhart 1998). Si tratta quindi di tenersi lontani dai rischi di anacronismo, e di restare sulla strada del contributo ad un’analisi che può aggiungere elementi e pluralità di prospettive alla comprensione della “natura della moneta” e al ruolo e alla funzione che essa svolge nella società.

 In particolare, procedendo principalmente sulla linea dell’importante studio del sociologo di Cambridge Geoffrey Ingham ‘La natura della moneta’, tra gli autori che più di tutti negli ultimi decenni si è speso nel tentativo di costruire una sintesi di diversi filoni di ricerca interdisciplinari, tracceremo in modo inevitabilmente molto schematico le differenze basilari tra i due principali approcci allo studio della moneta e dell’attività del suo governo, connettendoli alle problematiche dell’attualità[2]. Tra l’approccio sicuramente dominante, cosiddetto “metallista”, in quanto afferma che il valore della moneta è essenzialmente derivato direttamente o indirettamente dal metallo prezioso; e l’approccio che viene definito “nominalista” o “cartalista”, in quanto sostiene che l’accettazione e la validità della moneta, e in seconda battuta il suo valore, non derivano da caratteristiche intrinseche e materiali dei mezzi di scambio ma da una dichiarazione pubblica in merito alla loro utilità per il pagamento di debiti, in particolare verso lo stato o l’istituzione politica sovrana in generale, tale da determinarne così la loro validità generalizzata.

Di quest’ultimo approccio adotteremo una sintesi utile a specificare sia l’analisi dell’effettiva dinamica degli scambi, che l’importanza del significato politico della gestione della moneta (Lavoie 2011; Wray 2004; Ingham 2004). Vedremo infatti che evidenziare l’importanza della moneta di conto nelle funzioni monetarie conduce ad una diversa enfasi negli strumenti e nei fini della politica monetaria, e consente di entrare maggiormente nei concreti meccanismi sociali delle dinamiche monetarie effettive e nella conflittualità delle relazioni che le determinano.

La tradizione ‘metallista’: la moneta di mercato

 

La disciplina economica, nei suoi filoni dominanti che vanno a costituire per così dire il “canone” ufficiale della sua tradizione disciplinare, e fin dalle sue origini da Locke, Mill, Ricardo fino agli sviluppi più recenti, ha sempre concepito la moneta come una merce, come analoga ad una merce, la quale svolge le sue funzioni di mezzo di scambio e riserva di valore grazie al suo valore intrinseco[3] (Bell 2000). In questa prospettiva la moneta nascerebbe all’interno dello scambio economico, cioè a partire dal baratto, in direzione di un suo efficientamento, in una progressiva ricerca della diminuzione dei costi di transazione insiti nel tentativo di riscontrare una “doppia coincidenza dei bisogni”, per cui entrambi desideriamo quello che ognuno vuole vendere. A seguito di questo processo spontaneo di selezione del migliore mezzo di scambio mediante singoli scambi di baratto, verrà scelta la merce-moneta con valore stabile, in particolare quindi un metallo prezioso, la quale diventa poi anche unità di conto e di misura del valore. Il valore della moneta, e quindi la sua accettabilità, si basano sul valore del metallo che la garantisce. E’ la teoria che per questo motivo viene chiamata “metallista” (in generale si veda Innes 1913).

Le altre funzioni della moneta, di unità di conto e misura del valore, sarebbero quindi delle funzioni derivate, e quindi successive a quello che è il ruolo originario e primario della moneta, cioè la funzione di mezzo di scambio, che si evolve e sviluppa sulla base del miglioramento dei costi di transazione. In particolare mediante la progressiva individuazione della merce ritenuta socialmente più preziosa e desiderata, e quindi per questo più scambiabile. E’ quindi al processo dinamico dell’evoluzione degli scambi che si deve guardare per avere una concezione a cui ispirarsi per la regolazione dei sistemi economici[4].

E’ in questo paradigma generale dell’evoluzione della moneta che trova motivazione buona parte delle pratiche di politica monetaria, l’obiettivo delle quali consisterebbe nel “regolare la quantità” di merce-moneta, così da influenzarne il suo valore di scambio rispetto alle altre merci. Allo stesso modo in cui il principio delle curve di domanda e offerta si applica a tutte le merci, esso si applica anche alla moneta: se sarà tanta, allora il suo valore scenderà e ci sarà inflazione, se sarà poca il suo valore aumenterà. Per cui già a partire dall’affermazione del Gold Standard – per proseguire in forme diverse dopo la crisi del “keynesismo” e la fine degli accordi di Bretton Woods – la funzione preminente attribuita alla politica monetaria è stata quella di portare ad equilibrio un ipotetico “mercato” della merce-moneta, mirando a stabilizzare la preferenza relativa di questa merce in rapporto alle altre merci in modo tale da mantenerne costanti il valore di scambio e l’utilità. Ma se la moneta deriva la sua funzionalità dalla ricerca soggettiva di vantaggi  all’interno degli scambi di mercato e dalla concorrenza tra mezzi monetari, e dal conseguente convergere verso una situazione di equilibrio tra domanda e offerta di questi, allora si possono derivare due ordini di conclusioni: in prima istanza, l’appello ad uno schema di mercato, e in seconda battuta una concezione meramente quantitativa della sua gestione. La prima rappresenta l’idea per cui la gestione ottimale della politica monetaria consiste nell’orientarsi ad un equilibrio che si instaura secondo lo schema del mercato dei beni privati, e nel subordinare gli altri obiettivi della politica monetaria che non siano quello della stabilità del prezzo relativo della moneta, in quanto questi distorcerebbero il raggiungimento dell’ordine dello scambio su basi private. Qui, lo standard monetario nascerebbe infatti da una corretta posizione di equilibrio concorrenziale in cui tutti attribuiscono alla moneta più o meno il medesimo valore di scambio, ed è quindi questo che occorre ricercare e mantenere. La seconda conseguenza è quella di ottenere questo equilibrio attraverso una gestione che viene concepita in forma primariamente “quantitativa”. La moneta come potere d’acquisto è vista come una quantità da regolare dall’esterno aggiungendo o sottraendo quantitativi di merce-denaro dall’economia, ispirando il tradizionale principio che il governo della moneta consista semplicemente, come nel caso delle altre merci, nel determinare l’offerta di moneta in circolazione regolandone appunto la quantità (per cui si dice che la moneta è «esogena» o controllata «esogenamente»).

E’ vero che in base a quest’approccio che vede la moneta come un ente di mercato, nel tempo ci si è in parte svincolati dalla concezione quantitativa, in quanto si è legittimato la separazione tra politica monetaria e politica fiscale, con cui si scinde la gestione della moneta in circolazione che è attribuita allo stato e alla sua funzione di prelievo e immissione fiscale, dalla politica monetaria che, affidata ad un Banca centrale indipendente, si occuperebbe prettamente di influenzare la creazione di rapporti di debito-credito manovrando in via quasi esclusiva i tassi di interesse pagati sui depositi delle banche presso la Banca centrale. Se si parte però dalla constatazione che negli ultimi anni della crisi economica sono state mosse critiche sempre più severe a quelle architetture istituzionali che scindono in maniera più netta le responsabilità fiscali da quelle monetarie, e quindi le responsabilità politiche da quelle monetarie, concepite come due regni del tutto indipendenti (come nel caso estremo dell’Unione Europea), è importante notare il fatto che questa separazione viene fatta proprio sulla base dell’idea che l’origine e la funzionalità della moneta dipendano in linea di massima solo dalla ricerca privata di diminuzione dei costi di transazione all’interno delle interazioni nei mercati privati (Goodhart 1998) e che le autorità politiche non debbano pertanto avere voce in capitolo per quanto riguarda la creazione di moneta e la sua gestione. Questo ruolo deve quindi spettare ad un ente separato e indipendente, che ha come unico referente gli equilibri dei mercati monetari e finanziari, mentre allo stato spetta la modifica dei rapporti inerenti la circolazione della moneta già esistente mediante la struttura delle imposte, e non la sua creazione/distruzione. Se quindi l’idea dell’indipendenza della Banca centrale sembra aver ridotto l’elemento quantitativo dell’analisi (ma come vedremo solo in parte), abbandonando la pretesa di controllare rigorosamente la “quantità di moneta” che circola nell’economia, ciò è stato fatto enfatizzando ancor più l’idea che la moneta appartenga primariamente al regno del mercato e che debba essere perlopiù riservata allo scambio massimizzante tra agenti privati e all’equilibrio dell’incontro tra preferenze individuali per la liquidità. Questa riqualificazione dell’approccio di mercato ha quindi significato, da una parte, una scissione (in alcuni paesi di più e in altri meno) tra l’autorità monetaria e l’autorità politico-fiscale, e dall’altra, di conseguenza, il fatto che la nozione quantitativa sia diventata limitata alla determinazione del livello della base monetaria al fine di controllare i tassi di interesse su questa, cioè i tassi di interesse che le banche centrali pagano sui conti di riserva detenuti dalle banche presso di essa. Le banche centrali aumentano e diminuiscono la moneta liquida nelle riserve determinando il tasso di interesse che viene pagato su questi conti, ed è influenzando il prezzo di questa specifica quantità di moneta che le banche centrali tentano di governare l’offerta di moneta complessiva[5] (Cesaratto 2015).

Tuttavia, il trattamento inadeguato della dimensione politico-istituzionale avanzato da questa spiegazione evoluzionistica basata sull’idea di moneta merce – inadeguatezza ampiamente evidenziata dalla ricerca storica – si riflette direttamente anche sulle variabili e sui campi di gioco di riferimento in cui si esercita la politica monetaria che su di essa si basa (Goodhart 1998). L’insufficienza della politica dei tassi di interesse di base nel far ripartire l’economia ha, infatti, sancito il ritorno in pompa magna di una politica quantitativa da parte delle banche centrali senza precedenti (i vari “Quantitative Easing”). Con la riemersione, però, anche di tutta una serie di paradossi, in particolare uno su tutti, di cui abbiamo visto la gravità sempre nella situazione europea: l’aumento della quantità di moneta emessa dall’istituto di emissione viene fatto nell’ottica di forzare certe configurazioni dei tassi di interesse, ma ciò non porta necessariamente alla rimessa in moto degli scambi, cioè non modifica la preferenza relativa per la liquidità. In breve, lo schema del mercato e della gestione quantitativa di moneta merce non fornisce indicazioni adeguate a rianimare l’economia. L’offerta di moneta aumenta ma la sua utilità relativa non diminuisce[6]: le banche preferiscono detenere attivi in forma di riserve piuttosto che sotto forma di crediti verso l’economia reale. E’ la situazione che il grande economista John Maynard Keynes aveva chiamato di “trappola della liquidità”: in tempi di crisi la moneta in quanto riserva di potere d’acquisto viene accumulata e non circola, smettendo in sostanza di essere moneta (Amato e Fantacci 2012). Le banche scambiano i propri attivi in titoli con la nuova moneta emessa dalla banca centrale ma ciò non le incentiva a prestare, persino dopo che alcune banche centrali hanno portato i tassi di interesse di base in territorio negativo – quindi anche a costo di perderci. Ciò accade da un lato perché l’ambiente economico è troppo incerto e rischioso, e dall’altro a causa dell’elevato tasso di indebitamento complessivo, sia dal lato delle imprese e delle famiglie che diventano così avverse ad assumersi nuovi debiti, che dal lato delle banche stesse, le quali data la grande massa di crediti dal valore incerto non sono propense a dare nuovi prestiti (Koo, 2014). In breve, aumentare la semplice quantità di moneta, nonché il farlo in base allo schema di mercato della domanda e dell’offerta al fine di abbassare i tassi di interesse, non aumenta la moneta spesa e la circolazione monetaria e quindi la rianimazione degli scambi. Come fare quindi a far tornare la moneta ad essere moneta?

Si tratta a questo punto di andare a vedere se differenti teorie relative a origine e ruolo della moneta non ci aiutino ad individuare le forze che in maggior misura determinano il funzionamento del circuito degli scambi e l’effettiva circolazione della moneta, così da utilizzare le leve più efficaci economicamente e – perché no? – anche più legittime politicamente.

L’eterodossia «cartalista»: la priorità della moneta di conto e il ruolo della politica

E’ qui che ci vengono in aiuto teorie economiche e monetarie più “eterodosse”, come la teoria «neo-cartalista» e la «teoria della moneta endogena» (si veda Lavoie 2011, per una sintesi dei due approcci), che trovano, in particolare la prima, appunto significative ispirazioni dai lavori di archeologia monetaria come il lavoro di Philip Grierson. In questi studi si ritrova la consapevolezza che la moneta non è tanto e solo una quantità di merce-potere d’acquisto, una cosa, quanto e sopratutto il prodotto di un complesso di relazioni conflittuali di debito-credito, i cui attestati diventano scambiabili per mezzo della loro denominazione nell’unità di conto astratta gestita da uno stato sovrano, così che lo stato ne stabilisce il valore e le accetta in pagamento delle obbligazioni nei suoi confronti. Lo stato e l’autorità fiscale hanno quindi un ruolo centrale all’interno di queste relazioni (Ingham 2004; Wray 2015).

Come sintetizza efficacemente Pavlina Tcherneva:

«L’importanza dei documenti storici è [dovuta al fatto di] : 1) delineare la natura della moneta in quanto relazione sociale di debito-credito; 2) affermare il ruolo delle istituzioni pubbliche nell’istituzione di un’unità di conto standard codificando gli schemi per la contabilità e i listini dei prezzi; 3) mostrare che in tutti i casi la moneta è stata un fenomeno che ha preceduto il mercato, rappresentando inizialmente un’unità di conto astratta e un mezzo di pagamento, e solo dopo un mezzo di scambio generalizzato» (Tcherneva, 2005, p.5)

Ciò che si deriva da questi studi è quindi essenzialmente una critica della teoria della moneta-merce e una sottolineatura dell’importanza dell’autorità politica nel costituire e garantire uno standard del valore che fungesse da base per i sistemi proto-monetari di scambi antecedenti ai mercati veri e propri. Prima delle monete coniate, insomma, non troviamo il baratto ma troviamo l’elaborazione di sistemi di relazioni di debito-credito, e prima ancora l’elaborazione di varie unità di misura comuni sulla cui base i rapporti di debito al fine dello scambio di beni, di doni e di obblighi potevano essere instaurati. Il famoso studio di Grierson sull’origine della moneta, ci fornisce una quantità di esempi del fatto che le relazioni sociali di debito in senso lato sembrano essere all’origine di gran parte dei termini che ancora oggi utilizziamo quando adoperiamo la moneta (“pagare” da “pacificare”; il debito in tedesco schuld da “colpa”, e tanti altri); e che il denaro, lungi dall’essere solo un prodotto autonomo degli scambi di mercato, abbia avuto anzitutto necessità di un’autorità, religiosa e/o politica, che sancisse a livello collettivo il potere di determinati beni di annullare i debiti e di fungere così da mezzi di pagamento. L’elemento dell’unità di conto, il concetto di standard del valore, cioè della moneta in quanto unità di misura e di conto che definisce l’ambito di validità di un comune criterio di misura, sembra quindi essere l’elemento prioritario, sia logicamente che storicamente (Ingham 2004; Tcherneva 2005). Lo sviluppo di uno standard monetario presuppone infatti che tutti i soggetti degli scambi diano ad una merce lo stesso valore in termini degli altri beni da scambiare. Ma com’era possibile questo a partire da isolate transazioni di baratto, in cui per definizione ognuno deciderebbe individualmente i rapporti di scambio tra i beni scambiati? Il ruolo dell’autorità nel codificare i valori condivisi e di manifestarne in questo modo la rilevanza pubblica e collettiva, così da sancirne la validità per tutti allo stesso momento, ha quindi facilitato in modo essenziale la possibilità di stabilire uno standard condiviso del valore. Questo sembra avere la sua origine non nella comparazione dei beni, bensì nelle varie forme più o meno formalizzate di calcolo della gravità dei delitti e delle pene da infliggere ai colpevoli, nonché nei simboli del potere e del prestigio delle istituzioni in cui risiedeva l’autorità al contempo politica e religiosa. Ciò che accomuna queste traiettorie di sviluppo è il fatto che l’unità di conto nasce come modalità di calcolo delle diverse forme di obbligazioni che i diversi ceti e categorie di persone dovevano dare o ricevere in base a quanto stabilito dalle autorità (Ingham 2000; 2004 Cap. 5). Queste si svilupparono, da una parte, come ci spiega Grierson, dalle obbligazioni “penali” tra persone, regolate in base alle norme della giustizia retributiva, che stabilivano delle equivalenze tra le diverse gravità dei reati e i diversi risarcimenti da pagare; dall’altra parte, specie negli imperi centralizzati di Egitto e Mesopotamia, dalle relazioni di debito-credito tra governanti e governati, dalle obbligazioni e tributi direttamente nei confronti dell’autorità da pagare sotto forma di tributi devozionali, cessione di beni produttivi che poi venivano redistribuiti secondo regole di gerarchia e di ceto, nonché dall’obbligo fiscale di restituire i mezzi di scambio emessi e accettati dallo stato (Wray 2004; Ingham 2004 Cap. 5).

L’autorità politica stabiliva uno standard, che acquisiva il nome da beni preziosi o dal valore molto noto, e pertanto passibili di essere accettati come rimborso o tributo (orzo, schiavi, preziosi, bestiame, argento) e decretava quante unità di un certo bene valevano per un dato ammontare denominato nell’unità di conto, ed erano quindi necessarie a saldare un debito. Ciò valeva per l’immensa varietà di forme di unità di conto e di mezzi di pagamento dei debiti e delle sanzioni di cui ci parla Grierson: dai buoi alle mucche, dalle schiave e alle spose, all’oro, all’argento e all’orzo: quanto orzo valeva un mese di lavoro, o quante schiave valeva un omicidio? Inoltre, i mezzi di pagamento potevano coincidere con l’unità di misura ma non necessariamente. Il fatto che i prezzi fossero denominati in argento non impediva che i pagamenti fossero effettuati per esempio in orzo, o in vestiario o capi di bestiame (il che al tempo stesso impedisce di qualificare questi scambi come “baratto”).

Dai mezzi di pagamento in natura al mezzo di scambio generalizzato la strada della storia sarà ovviamente lunga e travagliata, ma da questa priorità, apparentemente remota, del ruolo istituzionale, è tuttavia possibile rintracciare una serie di indicazioni sui caratteri costitutivi delle relazioni monetarie, nonché sul ruolo delle politiche monetarie.

La conseguenza di base è che l’autorità politica, che stabilisce l’unità di conto e decide i mezzi di pagamento che essa accetta in pagamento delle obbligazioni verso di sé o verso altre persone, ha un ruolo essenziale da giocare nel sostenere la validità delle relazioni di debito-credito che costituiscono la moneta. Fosse anche solo per il fatto che con il successivo sviluppo dell’emissione di passività sue proprie, denominate nello standard, che promette di accettare indietro in pagamento delle tasse, esso vi sarà direttamente implicato. I mezzi di pagamento scelti dal sovrano avranno, infatti, un’accettazione molto più ampia a causa della quantità di persone che devono dei pagamenti allo stato.

Se come ci dice il filone di ricerca che stiamo descrivendo, «la moneta è una relazione di debito-credito denominata in un’unità di conto», che viene emessa sotto forma di passività accettata dall’emittente, allora l’effettiva circolazione consiste nell’emissione e nella successiva trasferibilità di pagherò verso attori impegnati nello scambio di beni reali (spesa pubblica diretta in lavoro, beni e servizi, investimenti ecc, e credito bancario) (Ingham 2004, Cap. 4; Bell 2000).  Qui lo stato svolge un ruolo essenziale sia nel costituire e garantire uno standard del valore che nell’effettivo instaurarsi di anticipazioni creditizie ed emissioni monetarie, nonché nella selezione dei mezzi di pagamento denominati nell’unità di conto che potranno circolare in funzione dello scambio di beni.

In epoca contemporanea, la funzione politica di governo dello standard si presenta con l’affermarsi delle banche centrali nella garanzia della fungibilità e convertibilità delle varie monete bancarie (le monete di tutte le banche, grandi e piccole, solide e meno solide, valgono uguale e sono convertibili l’una nell’altra). Come ci spiegano Keynes e Grierson, è solo sulla base dello standard monetario istituito dal sovrano che un baratto si trasforma in scambio monetario. E infatti, oggi, è solo perché lo stato e la sua banca centrale stabiliscono l’unità di conto e accettano in pagamento le diverse forme di passività bancarie (depositi, carte di credito, assegni) che le banche possono trasformare le proprie passività in mezzo di scambio, e svolgere poi il loro ruolo di determinazione dell’offerta di moneta mediante l’attività di credito (Bell 2000). Allo stesso modo in cui nell’antichità le persone utilizzavano determinati beni, dal bestiame all’argento, per compiere dei pagamenti e fare degli scambi solo in quanto erano anche utilizzati come unità di conto o denominati in essa e venivano dichiarati capaci di estinguere i debiti, la moderna circolazione monetaria mediante emissione e scambio di moneta-credito bancaria è possibile sulla base della denominazione dell’unità di conto nazionale e del fatto di essere accettata per pagare le tasse e di essere convertibile nella moneta dello stato (Wray 2015; Lavoie 2011).

Attualizzando, quindi, si tratta di andare a vedere la realtà in cui persone, imprese, banche e stati, entrano in rapporti monetari di debito-credito, cioè spendono, fanno credito e si indebitano. Quel complesso di dinamiche che rendono la moneta “endogena”, per cui l’effettiva emissione e circolazione dipende dalle valutazioni creditizie delle banche e dalla generale disponibilità a spendere da parte dello stato e dei privati (le quali non provengono in modo semplice e lineare da una quantità di moneta immessa dall’esterno degli scambi e dai mutamenti indotti del tasso di interesse, come implicato dal paradigma metallista) (Lavoie 2011; Wray 2004).

Viceversa, con la teoria della moneta-merce ci si è, insomma, sentiti giustificati a fermarsi nella ricerca delle origini della moneta alle origini delle monete coniate, gli oggetti metallici che siamo soliti chiamare monete e che si svilupperebbero come mezzi di scambio convenienti tra individui tra loro isolati e indipendenti, in modo pressoché indipendente da interventi dell’autorità sovrana che ne istituissero e sancissero l’accettabilità generale mediante la denominazione e l’accettazione fiscale al valore stabilito. Finendo in tal modo per invertire la gerarchia storica e logica delle sue funzioni.

Ma in realtà neanche la moneta coniata esaurisce le sue funzioni nel suo contenuto metallico. Abbiamo ormai sempre maggiori evidenze che le prime monete coniate, nella Lydia, e poi in Grecia e Roma, fossero piuttosto un semplice epifenomeno, dagli effetti certamente radicali in termini di estensione e di facilitazione degli scambi, ma che derivavano le loro capacità monetarie da quelle che, come abbiamo detto, sembrano essere in realtà le proprietà originarie delle istituzioni monetarie: primo, la determinazione di un’unità di conto condivisa con cui denominare i prezzi, i “valori”, cioè l’importanza economica relativa dei vari beni, nonché soprattutto i rapporti di debito-credito; e secondo, la determinazione da parte dell’autorità dei mezzi di pagamento e del valore in unità di conto al quale essi potevano soddisfare il pagamento di un debito. In questi casi in particolare, i re coniarono queste monete metalliche per pagare i fornitori di beni e servizi, i soldati o i marinai, che operando al di fuori dei confini trovavano maggiore praticità in monete facilmente portabili e dal buon valore intrinseco del metallo (leghe di argento, rame, oro), e che lo stato accettava comunque in ritorno per il pagamento delle tasse e di altre obbligazioni. Anche questi oggetti monetari circolavano solo in parte grazie al loro valore intrinseco, e presupponevano quindi l’azione di un’autorità sovrana che determinasse l’unità di conto e i mezzi di pagamento capaci di estinguere i debiti commerciali e che esso accettava per annullare i debiti nei propri confronti. Ed era solo in funzione della sua denominazione e accettazione da parte del sovrano che i metalli e le monete metalliche diventavano dei mezzi di scambio e di pagamento relativamente diffusi e generalizzati.

Se si ritorna al modo in cui queste dottrine si presentano nel dibattito odierno, i sostenitori dell’approccio metallista potrebbero anche qui obiettare che l’oggetto delle politiche monetarie non è certo più costituito semplicemente dalle monete metalliche, e che la politica dei tassi di interessi di base abbia, allo stesso modo delle politiche di gestione dello standard in cui lo stato è un attore centrale, proprio l’obiettivo di gestire direttamente le relazioni di debito-credito che costituiscono la moneta. Tuttavia, come abbiamo già detto nel paragrafo precedente, da una parte questo strumentario si è visto declassato nella gestione della crisi in quanto insufficiente rispetto alla nuova gestione quantitativa, dall’altro ciò costituisce solo un obiettivo strumentale intermedio, all’interno di uno schema orientato ad un processo creditizio che viene concettualizzato come mercato dei fondi prestabili, e che in quanto tale verrebbe fortemente influenzato da tali variazioni del costo del denaro. Ma come abbiamo già visto, questo schema è risultato incapace di rendere conto fino in fondo delle dinamiche endogene nella determinazione delle relazioni monetarie e della circolazione della moneta, con la conseguenza di non riuscire a influenzare in modo significativo un’offerta di moneta che viene determinata all’interno del sistema bancario nell’attività del credito, in base a orientamenti verso la liquidità e l’incertezza: nella fase di euforia che ha portato alla crisi, la politica monetaria non ha potuto focalizzarsi sulla possibilità di mettere in discussione l’opportunità di un eccessivo affidamento sull’espansione del credito privato, e quindi su un adeguato controllo della creazione di credito bancario in termini sia di limitazione che di indirizzo; nelle fasi di crisi, invece, non riesce a far ripartire la circolazione monetaria in quanto si focalizza sulla gestione del suo costo di mercato, il tasso di interesse, e non sull’effettiva immissione e circolazione.

Entrambe queste problematiche sono perciò da mettere in relazione con la separazione della politica monetaria dal suo legame con l’autorità politica e fiscale, nonché con la rinuncia a svolgere le funzioni inevitabilmente anche distributive del suo operare. Cioè con gli elementi che caratterizzano la moneta come istituzione sociale, e con i criteri con cui si decide di distribuire gli oneri e i vantaggi dell’andamento dell’economia reale.

Pertanto, laddove la “teoria endogena della moneta” ci spiega come una politica monetaria basata sulla gestione orientata al mercato del credito sul modello della moneta-merce, non possa riuscire a controllare efficacemente la circolazione monetaria, la sua versione neo-cartalista evidenzia il ruolo dell’autorità politico-fiscale nel determinare una maggiore funzionalità ed efficacia dell’intervento politico-monetario, e una maggiore attenzione alla posizione della moneta nella società più ampia, cioè alla sua legittimazione in quanto istituzione che governa i rapporti di debito e credito – la cui particolare importanza è legata anche al fatto che questi rappresentano la relazione con l’incertezza della dinamica economica nel tempo (vedi sempre Ingham 2004 e Amato e Fantacci 2012).

Per cui, dove si collocherebbe la leva della gestione dei rapporti reali di debito-credito? L’approccio cartalista evidenzia due strategie. In primo luogo, l’importanza della moneta di conto è da mettere in relazione all’idea per cui uno stato che è capace di scegliere l’unità di conto e di prelevare le tasse è, per questo stesso motivo, anche capace sia di emettere i mezzi di scambio denominati in essa e di determinarne l’accettazione, che di controllare in modo migliore la moneta effettivamente in circolazione mediante la gestione accorta dei deficit e dei surplus pubblici, cioè dell’emissione e della distruzione delle sue passività (attivazione e annullamento di relazioni sociali di debito/credito e di compra/vendita). Per questo la principale leva della politica monetaria starebbe nel maggiore controllo da parte della politica fiscale anche della creazione di moneta, cioè nella stretta collaborazione tra Banca centrale e Ministero del tesoro. In tal modo lo stato può spendere direttamente nel circuito economico emettendo proprie passività, senza passare dalle considerazioni creditizie del sistema bancario, ed aumentando la stabilità finanziaria in ragione della maggiore solidità del debito di uno stato monetariamente sovrano rispetto all’indebitamento privato. Su questo aspetto insiste in modo particolare la scuola neocartalista, per cui l’importanza dell’unità di conto sta nel sottolineare come uno stato sovrano non possieda veri e propri vincoli di spesa se non quelli che si autoimpone in termini di inflazione, tasso di cambio e procedure di approvazione dei bilanci. Come afferma Wray:

 «La visione statale o cartalista della moneta ha importanti implicazioni politiche. Una volta che lo stato impone una tassa ai propri cittadini, pagabile in una moneta che esso stesso crea, non ha bisogno del denaro dei cittadini per poter spendere; è piuttosto il pubblico che ha bisogno della moneta dello stato per pagare le tasse. Questo significa che lo stato può comprare qualsiasi cosa sia messa in vendita in termini della sua moneta, semplicemente fornendo la sua moneta » (Wray 2000, p. 59, corsivo mio; vedi anche Tcherneva 2005).

La seconda strategia, strettamente correlata alla precedente, ci indirizza di più sull’approccio del conflitto e della mediazione tra istanze contrapposte proposto da Ingham, e tematizza più direttamente il rapporto tra l’unità di conto e i mezzi di pagamento, cioè il fatto che il ruolo dell’autorità statale non consista solo nello stabilire una moneta di conto e nell’emettere i mezzi di pagamento, ma di stabilire uno standard attraverso la variazione del quale sia possibile, al momento opportuno, variare anche il potere liberatorio dei mezzi di pagamento. Come troviamo scritto già sul «Codice di Ur-Namma» (III dinastia di Ur, 2250 a.C.): «Il sovrano giusto è colui che fissa e riforma gli standard e le equivalenze» (corsivo mio; vedi Ciocca e Travaini 2010). Possiamo ritrovare questa consapevolezza in due importanti passi di Keynes. Quello che abbiamo messo in esergo a questo scritto, ed un altro che troviamo sempre nel Trattato della moneta, nell’ambito dello stesso ragionamento:

«E’ caratteristica peculiare dei contratti a base di moneta che lo stato o la comunità, non solo obblighi alla consegna, ma decida altresì che cosa debba essere consegnato a titolo di legge. Lo stato, pertanto, entra anzitutto in gioco come l’autorità legale che obbliga al pagamento della cosa corrispondente al nome o alla descrizione presente nel contratto. Ma entra doppiamente in gioco quando inoltre avoca a sé il diritto di determinare e dichiarare quale cosa corrisponde al nome e di variare la sua dichiarazione nel tempo – quando, per così dire, rivendica il diritto di riformare il dizionario. […] L’era della moneta seguì così l’era del baratto non appena l’uomo adottò una moneta di conto; e si giunse all’era del cartalismo o della moneta di stato allorché lo stato reclamò il diritto di dichiarare che cosa dovesse corrispondere come moneta alla corrente moneta di conto; quando cioè reclamò non solo il diritto di imporre l’osservanza del dizionario ma anche il diritto di scriverlo» (Keynes, 1930, p. 18, corsivi miei).

Se individuiamo il carattere originario della moneta nell’istituzione di un’unità di misura del valore condivisa con cui denominare i debiti e i prezzi, e nella gestione del valore dei mezzi di pagamento che possono adempiere i pagamenti, in particolare verso il sovrano, allora si comprende in un’altra luce il fatto che, nella storia, la principale forma di gestione delle problematiche economiche sia stata fatta mantenendo distinti l’unità di conto dai mezzi di scambio monetario, e regolandone il rapporto di convertibilità che li legava. Lo stato stabiliva il valore nell’unità di conto di ciò che valeva come pagamento di un debito; a quale valore, cioè, esso avrebbe accettato determinati mezzi di pagamento. Storicamente, come infatti ci ricorda anche Grierson, le monete metalliche hanno cominciato solo negli ultimi secoli ad avere impresso il loro valore nominale, e il loro potere liberatorio variava in funzione di quanto stabilito discrezionalmente dall’autorità. La gestione di questo rapporto tra Standard monetario e mezzo di pagamento è stata, fin dai tempi arcaici, il terreno precipuo di una decisione sovrana, da regolare in base alle leggi del costume e, in generale, in base a valori condivisi il cui rispetto era funzionale all’impedimento di faide sanguinarie, di rivolte, ma, in seguito, funzionale anche semplicemente alla sostenibilità economica. Stabilendo un’equivalenza tra l’unità di conto astratta e i diversi mezzi di scambio è possibile al momento opportuno modificarla. Per fare un esempio di fantasia a solo titolo esplicativo, una sterlina non vale semplicemente 100 penny, ma per esempio anche 20 “sacchi”, così che posso stabilire che a un certo punto la sterlina vale 10 sacchi, e di conseguenza che chi riceve i propri redditi in sacchi potrà pagare un debito in sterline con la metà dei sacchi. E’ come se i metri non valessero più 100 cm ma 30 pollici, così che posso decidere che a un certo punto 1 metro è divisibile in 20 pollici aumentando il valore di questi ultimi. Ma se con le misure di grandezze fisiche una simile modifica acquista inevitabilmente un aspetto “truffaldino”, lo stesso non vale necessariamente per una moneta, che non ha un valore intrinseco ma vale solo per quello che può procurare e soltanto se circola, se viene spesa e se i debiti possono essere pagati (Amato 2016).

La gestione di questi nessi di convertibilità qualificava quindi un tipo di politica che interveniva direttamente nella sostenibilità dei debiti, mediante uno strumento una tantum che consentiva, in casi di recessione e di carichi oberanti di debiti, di aumentare il potere liberatorio di redditi che erano diventati eccessivamente bassi per sostenere i debiti. Oppure diventava, viceversa, anche un facile strumento di aumento della pressione fiscale (Wray 2004).

Se si rapporta all’oggi, quindi, la gestione dello standard e dei mezzi di pagamento denominati in quel “titolo”, come dice Keynes, è pertanto l’elemento costante che possiamo derivare dall’approccio eterodosso e storico (e “realistico”, in quanto focalizzato sull’effettiva dinamica della circolazione e degli scambi) alla politica monetaria. Quest’ultima si presenta quindi non come una gestione di quantità di merci moneta ma come un processo di creazione e attuazione di relazioni sociali di un certo tipo, e del governo della loro sostenibilità e funzionalità sociale.

In età contemporanea il rapporto tra tali relazioni e l’unità di conto si presenta principalmente con i problemi relativi alle decisioni di stabilire dei rapporti fissi di convertibilità tra le monete di paesi diversi, e nella stabilità del potere d’acquisto reale della moneta[7]. La convertibilità è infatti un elemento di radicale importanza per la politica monetaria in quanto si colloca al centro del complesso dei rapporti creditizi. Fissare un tasso di convertibilità, sia tra moneta cartacea e metallo che tra una valuta nazionale e un’altra valuta estera, significa in entrambi i casi adottare una posizione di rassicurazione nei confronti dei creditori, che siano i cittadini che utilizzano banconote o gli investitori esteri che si vedranno restituire una moneta con lo stesso potere d’acquisto di quando l’hanno prestata. Tuttavia, rinunciare anche a variare il rapporto delle monete-credito con lo standard implica anche il rischio di non poterne variare il valore in base alle condizioni economiche nazionali. Nel momento in cui, però, un’economia cade in recessione e i redditi dei debitori diminuiscono, il servizio di un debito precedentemente contratto può diventare insostenibile. A livello aggregato ciò può portare ad un complessivo ritrarsi delle spese che rende ancora più improbabile il servizio del debito e più probabili i fallimenti. Per questo motivo una svalutazione della moneta in rapporto allo standard stabilito, o un suo inflazionamento, che a tutta prima possono sembrare come qualcosa che mina la stabilità economica e il valore del rapporto creditizio, in realtà, a seconda ovviamente dell’entità in cui avviene, possono piuttosto sostenere gli scambi e l’attività produttiva, e quindi la fiducia nella relazione monetaria. Di conseguenza, un assetto di tassi di cambio fluttuanti, se da un lato manda ai creditori esteri un segnale di dover determinare in maniera più lasca le aspettative riguardo al valore atteso dei propri crediti che, sempre a seconda delle situazioni, può portare alla richiesta di tassi di interesse più elevati per compensare le potenziali perdite dovute alle possibili svalutazioni, dall’altra parte aumenta però anche lo spazio di autonomia nel governo della politica economica, nonché la possibilità essenziale di una collaborazione tra politica monetaria e politica economica e fiscale (Wray 2015; Goodhart 1998).

Un tentativo di sintesi: la natura sociale della moneta tra equilibrio e conflitto

In conclusione, la dinamica essenzialmente conflittuale che costituisce il valore della moneta – di cui ci parla Ingham – e che il governo è chiamato a governare e a mediare, possiamo perciò esemplificarla nel modo seguente: non può dominare l’interesse esclusivo di nessuna delle due parti in gioco nella relazione monetaria, in quanto in entrambi i casi si verrebbe a minare la possibilità che la moneta serva gli scambi e il credito e che conservi il suo valore nei periodi delle transazioni. Infatti, nella prevalenza assoluta dell’interesse del debitore attraverso l’annullamento del valore reale del debito mediante inflazione o mediante dei sistematici fallimenti, il carattere creditizio del valore della moneta verrebbe inevitabilmente minato, e lo stesso nel caso in cui l’emittente di moneta, lo stato, si assumesse su di sé un carico debitorio fuori misura mediante l’emissione di moneta (in quanto passività dell’emittente, banca centrale o ministero del Tesoro, tutte le spese dello stato comportano un aumento più o meno permanente o temporaneo dell’indebitamento pubblico) mirando all’alleggerimento nominale del suo stesso debito; in entrambi i casi il danno sta nel minare eccessivamente la fiducia dei creditori e la stabilità del potere d’acquisto e dei redditi. Nel caso invece di preminenza assoluta dell’interesse del creditore il risultato rischierebbe di essere la scomparsa stessa dei redditi, il blocco degli scambi e del sistema economico. Il peso eccessivo dei debiti e l’impossibilità di rimborsarli a causa di un’austerità sistemica provocano disoccupazione, redistribuzione della ricchezza verso l’alto, aumento delle disuguaglianze e impoverimento, comporta il blocco della circolazione monetaria, e costituiscono, come stiamo vivendo in questi anni di crisi economica europea, un fattore altrettanto forte di crisi di fiducia nelle istituzioni che emettono la moneta e regolano gli scambi economici. Conducono, insomma, ad una conflittualità crescente nei confronti proprio dell’istituzione monetaria e del suo governo, in quanto chiama in causa direttamente i criteri distributivi del sistema economico e la sua legittimità. Perciò, può ben essere anche nell’interesse del creditore avere talvolta una perdita reale del valore monetario del suo credito se l’obiettivo è quello di mantenere l’attività produttiva, la distribuzione e la circolazione dei redditi, e di evitare i rischi del fallimento dei debitori (e il rischio di vivere in un paese disastrato).

La moneta, quindi, non può né essere ricchezza assoluta né non esserlo affatto. Il suo carattere creditizio, cioè la sua capacità di trasportare nel tempo il valore, è il luogo preminente del conflitto, e quindi della mediazione politica. Una mediazione che, contrariamente a quanto sostenuto da quanti si rifanno in maniera più o meno rigida alla scuola di ispirazione metallista, richiede necessariamente una discrezionalità, una decisione che chiama in causa una politica di distribuzione degli oneri in nome della stabilità di quella comunità di cooperazione economica rappresentata dalla condivisione di una moneta di conto.

La dottrina economica metallista, che vede la garanzia della solidità della moneta nella sua scarsità di merce, è in realtà parte di questo conflitto, collocandosi segnatamente in funzione degli interessi oggettivi dei creditori e dei percettori di rendite finanziarie, che vedono nelle istanze deflazionistiche la difesa della stabilità economica, mediante la difesa dei rispettivi diritti acquisiti e opponendosi a qualunque discrezionalità politica. Ma come scrive magistralmente sempre Keynes nel Trattato sulla riforma monetaria del 1922, in pagine che meritano anch’esse un’ampia citazione:

«Dunque l’inflazione è ingiusta e la deflazione dannosa. Delle due, se trascuriamo le inflazioni esagerate come quella della Germania, la deflazione è forse la peggiore; perché è peggio, in un mondo impoverito, provocare la disoccupazione che disilludere i rentier. Ma non è necessario confrontare i due mali. E’ più facile accordarci che l’uno e l’altro sono mali da evitare […] Per questi gravi motivi, dobbiamo liberarci dalla profonda resistenza che si prova contro le proposte di regolare la moneta con decisioni ragionate. Non possiamo più permetterci di lasciarla in quella categoria, le cui caratteristiche distintive sono comuni alla pioggia, alla natalità o alla costituzione; cose che vengono regolate da cause naturali, o che sono la risultante delle azioni di molti individui che agiscono indipendentemente l’uno dall’altro, o che possono essere cambiati solo da una rivoluzione.[…] Vi è una parte rispettabile dell’opinione pubblica che [… ] condanna egualmente la svalutazione monetaria e l’imposta sul capitale ritenendo che esse infrangano l’intangibile santità dei contratti; o meglio, l’intangibile santità dei diritti acquisiti […] Pure, queste persone, trascurando quel grandissimo principio sociale che è la fondamentale distinzione tra diritto dell’individuo di venir meno a un contratto e il diritto dello stato di controllare i diritti acquisiti, sono i peggior nemici di ciò che essi cercano di conservare. L’integrità dei contratti tra gli individui può essere salvaguardata solo dal potere discrezionale dello stato di riformare ciò che è diventato intollerabile.» (Keynes, 1975, pp. 35 e 55, corsivi miei)

Sul fronte opposto, anche le teorie che pongono un’eccessiva enfasi sul diritto al default e alle diverse forme di svalutazione della moneta sono ugualmente parte di questo conflitto.

Ma come sintetizzano Amato e Fantacci «‘riformare ciò che è diventato intollerabile’ implica la possibilità e addirittura la necessità di un intervento moderatore, non sulle posizioni contrattuali, ma su ciò che le misura» (Amato e Fantacci 2016).

Per questo motivo possiamo dire, in ultima istanza, che il ruolo istituzionale della moneta in quanto unità di conto è quello di costituire le condizioni di base per la possibilità di una misura comune per il calcolo economico di mercato e, mediante la gestione del suo rapporto con i mezzi di pagamento, di mantenersi uno spazio e una capacità decisionale con cui poter governare il valore dei mezzi di pagamento in funzione della stabilità e sostenibilità del sistema degli scambi. In una battuta, che i beni vengano scambiati e che i debiti possano essere pagati. E ciò esige che le istituzioni monetarie acquisiscano il ruolo di mediatore in quel rapporto intrinsecamente conflittuale fra debitori e creditori, fra i due lati della relazione monetaria. Una relazione la cui conflittualità e il cui difficile equilibrio soli costituiscono e garantiscono l’istituzione della moneta.

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[1] Cfr. J. M. Keynes, Il trattato della moneta, citato in Fine della finanza, p. 59.

[2] Poiché questo scritto era stato in origine pensato per essere una postfazione ad una pubblicazione in corso d’opera su Philip Grierson, e a causa della sterminata bibliografia che si sarebbe potuto citare ma che avrebbe appesantito tremendamente il testo, ho cercato tenere al minimo i riferimenti bibliografici e di inserire più che altro quelli a carattere un più introduttivo e generale, su cui si possono trovare le argomentazioni più ampie, nonché le relative bibliografie. L’intero scritto è quindi da intendersi più come un invito e uno stimolo a ulteriori studi che non come un’argomentazione definita e conclusa.

[3] Naturalmente, nessuno descriverebbe il sistema attuale di moneta fiat come espressamente “metallico”, così come ben pochi sono coloro che auspicano la restaurazione di un Gold standard. Il modo specifico in cui in tempi moderni si può essere a sostegno di questa tesi è piuttosto l’idea che la moneta possa essere concepita in termini di merce, cioè l’idea che la moneta sia un attivo finanziario di proprietà individuale, un patrimonio esclusivamente personale. La fallacia di questa prospettiva è che la moneta, come ogni altra attività finanziaria, può essere un attivo solo se c’è un corrispettivo passivo, un debito che la moneta può annullare. Per questo motivo a livello aggregato la moneta scompare, e non è quindi assimilabile ad un patrimonio e ad una forma ricchezza personale, né appunto ad una merce che è invece ricchezza reale, cioè un attivo senza un passivo (Wray 2015; Amato 2016).

[4] Sui paradossi e le incoerenze di queste spiegazioni si può vedere Ingham (2000; 2004) e Tcherneva (2005).

[5] Una precisazione ulteriore: questi interventi comportano in concreto la sostituzione di un attività finanziaria meno liquida, come i titoli, con quella più liquida, cioè la moneta. Si potrebbe pertanto obiettare che la Bc non aumenta la quantità di attivi finanziari ma solo la quantità dell’attivo più liquido rispetto a quelli meno liquidi. La moneta è comunque la cosiddetta “base monetaria” quella consegnando la quale i debiti vengono estinti, pertanto regolare la quantità di base monetaria significa regolare la quantità di moneta liquida.

[6] E’ quanto è successo nell’UE, ma non solo, con le politiche monetarie “non convenzionali” che Mario Draghi ha attuato dal 2011 in avanti. Con il Long Term Rifinancing Operation sono stati prestati circa 1000 miliardi di euro che sono però stati utilizzati per rinnovare titoli di stato e per aumentare le riserve volontarie delle banche presso la Bce. Ancora più rumoroso è stato il fallimento del Quantitative Easing, che dopo un anno e mezzo di immissione di nuova liquidità nelle riserve delle banche per 60 miliardi di euro al mese, la zona euro è tornata in deflazione. Il motivo essenziale di questi due fallimenti è che per statuto molte banche centrali, ma in misura estrema la Bce, non possono finanziare spese dirette nell’economia ed assumersi delle attività reali attraverso gli stati, e si limitano a intervenire sulle “quantità” monetarie influenzando i tassi di interesse di base, cioè sui propri conti di riserva e da qui sui mercati finanziari. La letteratura su questo è molto ampia e anche di vecchia data; di recente si può vedere in generale Cesaratto (2015), Terzi (2014) e Koo (2014).

[7] Vi sono però anche una serie di autori e di studi che propongono delle forme di ritorno anche a livello nazionale di una separazione tra la moneta di conto e i diversi mezzi di scambio che possono essere utilizzati, così che il valore di quest’ultimi può essere variato nei termini della prima. Tra questi autori, oltre ai già citati Massimo Amato e Luca Fantacci, si può segnalare un vecchio articolo di Luigi Einaudi (1937) in onore di Irving Fisher; l’ex capo economista della Banca d’Inghilterra Willem Buiter (2003), e Stephen Davies (2005). Una delle idee espresse in vari modi da tutti loro è l’accento sugli effetti deflattivi della trappola della liquidità e l’ipotesi di strumenti per l’affermazione di tassi di interesse negativi generalizzati (non solo sui depositi di riserve). L’idea è esplorata anche in Wray (2004).

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