
di Aldo Scorrano
Il primo trimestre del 2017 ha segnato un lieve aumento del credito al consumo: è stata alta la domanda, presso banche ed intermediari finanziari, di credito al dettaglio, così come riportato dall’ultimo Osservatorio sul Credito al Dettaglio realizzato da Assofin, Crif e Prometeia:
“(…) nei primi nove mesi del 2016 le erogazioni sono cresciute del +17,5% rispetto allo stesso periodo del 2015, contribuendo a sostenere i consumi durevoli delle famiglie, a lungo rimandati durante gli anni di crisi. Il mercato è stato trainato dai finanziamenti destinati all’acquisto di autoveicoli e motocicli (+21,1%) nel solco della ripresa delle immatricolazioni e dei passaggi di proprietà, grazie anche alle compagne promozionali di molte case automobilistiche. Più contenuta, ma comunque positiva, la dinamica relativa agli altri prestiti finalizzati (dall’arredamento agli impianti per la casa, dall’abbonamento in palestra ai dispositivi elettronici), con una crescita complessiva dell’8%. Positivo anche l’andamento dei prestiti personali (quelli che i clienti ottengono senza la necessità di dichiararne la destinazione), in crescita del 15,7%(…)”.
L’articolo prosegue spiegando le ragioni di questa crescita, attribuendola “soprattutto ai tassi bassi e alla forte concorrenza tra gli intermediari. Questo perché tanto le banche, quanto le società finanziarie negli ultimi tempi – anche grazie all’evoluzione tecnologica – hanno affinato sensibilmente le capacità di calcolo dei rischi e inoltre la ripresa economica in atto rende meno probabili le insolvenze.”[1]
Da quanto riportato sembrerebbe, in effetti, che vi sia una certa “ripresa” economica trainata dai consumi, soprattutto da parte delle famiglie, lasciando intendere un ritorno di “fiducia”.
Nel passo dell’articolo riportato in precedenza, si attribuiscono a questa ripresa, in particolar modo, due fattori: 1) la capacità di calcolo dei rischi e 2) la ripresa economica in atto.
Sul primo punto, molto sinteticamente, si può dire che gli istituti di credito (che ricordiamo sono delle imprese private) prima di erogare un prestito effettuano una serie di analisi complesse per verificare sia il rischio di insolvenza della propria clientela (famiglie o imprese), sia il rischio diretto di subire delle perdite, pertanto adottano una serie di misure preventive e precauzionali per scongiurare il verificarsi di tali eventi.
Con riguardo alla clientela i criteri oggettivi di valutazione dei prestiti, che costituiscono una forma di finanziamento molto rischiosa per gli istituti di credito, sono – o meglio, dovrebbero essere – abbastanza severi. Una fase preliminare per la concessione del credito richiesto prevede che l’istituto emittente ponga in essere degli accertamenti affinché sia, in qualche modo, certificato che il richiedente sia effettivamente in grado di rimborsarlo nei modi e nei tempi previsti.
Tale procedura consente, prudentemente, di ridurre al minimo il rischio di un possibile mancato pagamento delle future rate e determina, quindi, il buon esito della pratica di finanziamento. Questa procedura prudenziale fa parte della cosiddetta “politica del rischio”.
Guardando, invece, internamente al proprio operato gli istituti di credito sono obbligati a rispettare particolari e complessi parametri dettati da alcuni accordi e regole, che si prefiggono come obiettivo quello di definire una regolamentazione della vigilanza bancaria, per assicurare stabilità al sistema finanziario globale. Questi protocolli prendono il nome di accordi di Basilea (I, II e III)[2].
Alla luce di quanto detto, circa la valutazione dei rischi nel concedere i prestiti, senza entrare nel merito di questi “controlli” e sulla loro affidabilità, diamo per buono, anche se con riserva, che gli istituti di credito abbiano effettivamente “affinato sensibilmente le capacità di calcolo dei rischi” per cui sono in grado di giudicare il “profilo” della clientela in modo che questa selezione fatta a monte possa dare ampi margini di sicurezza su chi potrebbe essere un “cattivo debitore” a rischio insolvenza e chi no.
La questione, invece, si fa controversa sul secondo punto. Come appena spiegato, se sulla capacità di calcolo dei rischi da parte degli istituti di credito si può, tutto sommato, ritenere che questi protocolli funzionino, di certo sul fatto che la crescita delle erogazioni del credito al dettaglio sia anche frutto della “ripresa economica in atto” mi sembra, per usare un eufemismo, una dichiarazione degna di essere bollata come fake-news, tanto per usare un termine ormai di moda di questi tempi.
Grafico 1 – Crescita del PIL tra alcuni Paesi dell’area euro
Fonte dati: European Commission, Spring 2017 Economic Forecast Institutional paper 053, May 2017
Grafico 2 – Crescita del PIL nell’area euro
Fonte dati: European Commission, Spring 2017 Economic Forecast Institutional paper 053, May 2017
Come chiaramente si evince da questi grafici, l’Italia è fanalino di coda come tasso di crescita e da quanto si apprende anche dalla Commissione Europea è il Paese europeo che cresce meno di tutti[3].
Pertanto, restando con i piedi ben ancorati per terra e con dati alla mano, non vi è alcuna ripresa economica in atto tale da giustificare una “fiducia” da parte degli operatori finanziari (banche, intermediari finanziari), nel campo del credito al consumo, che possa garantire loro basse percentuali di insolvenze. La vera questione, al contrario, che ribalta completamente lo scenario, è che il credito al consumo (oggi concesso a tassi molto bassi) rappresenta l’altra faccia della medaglia di una realtà notevolmente difforme da quella descritta dai media.
Come abbiamo dimostrato, non vi è alcuna crescita economica in atto: l’economia ristagna, il settore industriale è in declino, la domanda interna, crollata, non mostra segni di ripresa. E’ assurdo pensare, poi, che dopo tutti questi anni in cui il mondo del lavoro ha subito forse il più duro attacco degli ultimi trent’anni si possa davvero parlare di “ripresa”: la disoccupazione presenta tassi elevati (grafico 3), i salari sono fermi (“Le retribuzioni contrattuali orarie a febbraio segnano un nuovo minimo storico, salendo di appena lo 0,3% su base annua: l’incremento più basso da quando esistono le serie storiche, ovvero dal 1982” – Fonte Istat).
E’ opportuno ricordare, a ragion veduta, che da quando fu approvato il cosiddetto “pacchetto Treu”, passando per la “legge Biagi” e la “riforma Fornero” fino ad arrivare al “Jobs Act”, come osserva il prof. Emiliano Brancaccio, “abbiamo assistito nel nostro paese a una caduta verticale degli indici di protezione del lavoro calcolati dall’OCSE, seconda in Europa soltanto al crollo che si è registrato in Grecia. La conseguenza è che le tutele dei lavoratori italiani si situano oggi al di sotto di quelle vigenti in Germania e in vari altri paesi europei. (…) L’effetto propulsivo del Jobs Act è un mito che non trova riscontro nei dati. Chi si limita a notare che dopo l’approvazione del Jobs Act l’occupazione in Italia è aumentata e da ciò conclude che esiste un legame di causa ed effetto tra i due fatti, dal punto di vista scientifico si colloca allo stesso livello di quegli stregoni che attribuivano un improvviso temporale alle loro danze propiziatorie. Eppure, per capire che le cose stanno diversamente baserebbe fare un po’ di analisi comparata tra paesi: dall’entrata in vigore della riforma del lavoro, l’aumento degli occupati in Italia è stato inferiore alla crescita media dell’occupazione che si è registrata in Europa, anche in paesi che nel periodo in questione non hanno attuato alcuna deregolamentazione del mercato del lavoro. Questa banale evidenza non deve sorprenderci: vent’anni di ricerca scientifica in materia hanno chiarito che non sussistono relazioni statistiche significative tra flessibilità del lavoro e occupazione. L’assenza di chiare evidenze empiriche sull’efficacia delle riforme del lavoro è ormai un dato riconosciuto persino in alcuni studi di quelle istituzioni che hanno più insistentemente spinto verso la precarizzazione, dall’FMI all’OCSE.”[4] Dunque niente di cui gioire, tantomeno nulla fa pensare che una situazione del genere possa incoraggiare i lavoratori a “sacrificare” una parte dei loro risparmi a spese tali da giustificare una qualche forma di “spinta” per i consumi, considerando, appunto, l’estrema incertezza per il futuro.
Grafico 3 – Tasso di disoccupazione paesi UEFonte dati: https://data.oecd.org/
Da aggiungere che, imbrigliato com’è nei vincoli di spesa (“ce lo chiede l’Europa!”), lo Stato drena, anziché immettere, denaro dal settore privato praticamente da più di vent’anni (avanzo primario: il saldo del bilancio nominale al netto degli interessi sul debito pubblico. Negli ultimi vent’anni, dal 1995 al 2014 l’Italia registra un avanzo di bilancio per ben 19 anni su 20).
Grafico 4 – Avanzo Primario Itali
Fonte dati: http://www.mef.gov.it/inevidenza/article_0045.html
Si fa presto a capire come, in questo disastroso quadro, diviene sempre più frequente il ricorso al credito al dettaglio. Semmai è proprio quest’ultimo che, assurgendo a canale privilegiato attraverso il quale i privati (soprattutto le famiglie) effettuano la loro spesa per determinati consumi, altrimenti non effettuati (in particolar modo nel settore automobilistico, elettronico e dell’arredamento), spinge un po i consumi. Sempre più frequente è inoltre il ricorso al prestito per “liquidità”[5].
Ma tutto questo ci deve far riflettere su un fatto estremamente importante: se, in aggregato, lo Stato (settore pubblico) non riesce a “sostenere” il settore privato (attraverso la spesa pubblica, effettuata in disavanzo), facendo in modo che quest’ultimo possa accumulare abbastanza risorse finanziare da destinare, ad esempio, una parte al risparmio e l’altra ai consumi, allora sarà “qualcun altro” a doversi sostituirsi allo Stato: le banche e le finanziare.
Grafico 5 – Italia , debito privato/PIL
Fonte dati: https://it.tradingeconomics.com/
Ecco nascere il “consumatore indebitato”: sempre più famiglie fanno ricorso al credito al consumo per soddisfare il bisogno di “domanda” di beni e servizi (anche se non sempre quelli destinati ad un fabbisogno primario), non più garantito dal settore pubblico. Una sorta di keynesismo privatizzato!
Una buona parte del reddito è sempre più indirizzata al pagamento delle rate contratte con queste istituzioni finanziarie. Le famiglie, in un contesto di crisi come quello attuale, si vedono costrette a ridurre le spese e tutto questo genera un effetto deflattivo che si riverbera sull’intera economia.
Si può concludere, a questo punto, con una piccola riflessione: se lo Stato smette di espletare una delle sue funzioni primarie, cioè quella di curare gli interessi “della collettività”, in primis attraverso la spendita di risorse pubbliche, allora sono le istituzioni private a farsi carico di ciò, con una differenza non da poco: l’obiettivo non è più l’interesse collettivo, il benessere sociale, bensì il margine di profitto che riusciranno ad ottenere in cambio, come controprestazione del “servizio” o del “bene” offerto.
27/06/2017
[1] Fonte: “I prestiti personali rialzano la testa forti richieste per auto e lavori in casa” – www.repubblica.it
[2] Il Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria, è un organo consultivo internazionale, istituito nel 1974 dalle banche centrali dei paesi del G10 e ha sede a Basilea presso la Banca dei regolamenti internazionali (BRI).
[3] http://ec.europa.eu/info/sites/info/files/ecfin_forecast_winter_1317_it_en_0.pdf
[4] “L’effetto propulsivo del Jobs act è un mito”: http://www.emilianobrancaccio.it/2017/03/22/brancaccio-leffetto-propulsivo-del-jobs-act-e-un-mito/
[5] Nei primi nove mesi del 2016 le erogazioni di credito al consumo hanno fatto segnare un incremento del +17.5% rispetto allo stesso periodo del 2015, contribuendo a sostenere i consumi durevoli delle famiglie, a lungo rimandati durante gli anni di crisi. Hanno trainato il mercato i finanziamenti finalizzati all’acquisto di autoveicoli e motocicli (+21.1%) nel solco della ripresa delle immatricolazioni e dei passaggi di proprietà. Per questo tipo di prestiti si sono rivelate determinanti le numerose campagne a tassi promozionali e la proposizione di prodotti a elevata flessibilità e abbinati a servizi accessori aggiuntivi. I finanziamenti finalizzati all’acquisto di altri beni e servizi (appartenenti a settori quali arredo, elettronica ed elettrodomestici e altri beni e servizi finanziabili, tra i quali impianti per la casa, spese mediche, palestre e tempo libero, etc.), registrano, invece, una crescita di intensità inferiore rispetto al 2015 (+8%), principalmente dovuto al rallentamento dei finanziamenti per elettrodomestici/elettronica di consumo. I prestiti personali consolidano la crescita già avviata a inizio 2015 (+15.7%) grazie soprattutto al persistente basso livello dei tassi di mercato, che ha favorito una forte concorrenza tra gli intermediari e un’ampia proposta di offerte modulari e flessibili. Tale vivacità nell’offerta ha indotto molti clienti a trasferire i contratti presso altri istituti, alla ricerca di condizioni più favorevoli, sostenendo l’attività di refinance. Le erogazioni via carte rateali/opzione accelerano la crescita, trainate dalle carte opzione (+24.4%), tipologia verso la quale negli ultimi anni si è orientata l’offerta. Tuttavia, una parte non trascurabile delle transazioni effettuate con questa tipologia di carte è regolato a saldo e non si concretizza, quindi, in un vero e proprio finanziamento. Decisamente più modesta la crescita dei volumi transati dalle carte rateali (+1.1%). Infine, la crescita dei finanziamenti contro cessione del quinto dello stipendio/pensione (+9.8%) è stata trainata dalle erogazioni ai pensionati, che costituiscono quasi la metà del totale flussi del comparto. (Fonte: Quarantunesima edizione Osservatorio Assofin – CRIF – Prometeia)
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