
di Fabio Di Lenola
Il quarto di secolo che va dai primi anni settanta fin verso la metà dei novanta è un’epoca piena di contrasti. Da una parte si intensificò quel processo di profonda trasformazione strutturale che era stato avviato nei principali paesi capitalistici nel ventennio precedente , dall’altra si manifestarono difficoltà economica di diversa natura e intensità. L’evoluzione dinamica dei fenomeni sopra menzionati spianò la strada alla cosiddetta rivoluzione marginalista, le cui fondamenta daranno vita a quello che poi sarà l’impianto teorico neoclassico.
Una caratteristica del nuovo sistema che venne alla luce sin dall’inizio riguarda la riduzione di interesse per il fenomeno dello sviluppo economico, il grande tema delle teorie economiche di Smith, Ricardo, Marx e tutti gli economisti classici.
L’attenzione si concentrò sui problemi dell’allocazione di risorse scarse.
Malgrado la presenza di considerazioni sulla dinamica dei sistemi economici , il pensiero dei fondatori del sistema teorico neoclassico , prescindette sostanzialmente dal problema dell’evoluzione nel tempo delle economie industriali. Scriveva Jevons: “il problema economico può essere formulato come segue: dato: una certa popolazione con vari bisogni e poteri di produzione, in possesso di certe terre e di altri fonti di materia; da determinare: il modo di impiegare certe il lavoro meglio atto a rendere massima l’utilità del prodotto”. Nell’analisi delle condizioni che assicurano l’ottima allocazione delle risorse fra usi alternativi, il pensiero neoclassico individuò un principio di validità universale , in grado di abbracciare l’intera realtà economica. “Sul lato analitico, l’economia dimostra di essere una serie di deduzioni dal concetto fondamentale di scarsità di tempo e materiali… qui allora è l’unità dell’oggetto della scienza economica, le forme assunte dal comportamento umano nel disporre di mezzi scarsi.” Partendo da questa citazione di Lionel Robbins, si arriva al culminare con il pensiero di Samuelson, secondo il quale c’è un semplice principio al cuore di ogni problema economico : una funzione matematica da massimizzare sotto vincoli.
Un’altra caratteristica che accomuna i tre padri fondatori del pensiero marginalista (Jevons, Menger e Walras), e che sostanzialmente resterà un pilastro all’interno dell’edificio teorico neoclassico, è l’accettazione del PRINCIPIO DI UTILITA’, come base di tutto il discorso economico. Il contributo più importante dei marginalisti, risiede nel modo i cui essi modificarono le fondamenta utilitaristiche dell’economia politica.
Il loro marginalismo accreditò una speciale versione della filosofia utilitaristica, quella per cui il comportamento umano è esclusivamente riducibile al calcolo razionale teso alla massimizzazione dell’utilità. Applicando tale principio, e rendendolo universale, sarebbe stato possibile comprendere l’intera realtà economica.
Un terzo elemento caratteristico riguarda il metodo. Il metodo neoclassico è basato sul principio di sostituzione, un metodo che non ha equivalenti nel pensiero classico. Nell’ambito della teoria del consumo si assume la sostituibilità tra una combinazione di fattori ed un’altra. L’analisi è possibile postulando il fatto che gli agenti economici possano scegliere se essere produttori o consumatori. E l’obiettivo è il medesimo: ricercare l’alternativa sotto la quale l’utilità è massima. Tale metodo presuppone che le alternative in gioco siano aperte e che le decisioni prese siano reversibili, diversamente, il principio di sostituzione non avrebbe modo di esistere.
La quarta caratteristica che contraddistingue l’approccio neoclassico riguarda i soggetti che partecipano all’attività economica. Assumendo per vera l’idea che i soggetti devono essere capaci di effettuare scelte del tutto razionali per massimizzare utilità e/o profitto , allora bisogna analizzare i partecipanti al gioco dell’economia come dei semplici INDIVIDUI (atomizzati e astorici), o al massimo l’analisi deve partire da aggregati sociali minimi , ma caratterizzati dall’individualità dell’unità decisionale, come le famiglie o le imprese. In un colpo solo, scompaiono dall’analisi i soggetti collettivi, le classi, i macroaggregati, i corpi politici, che invece i mercantilisti, i fisiocratici, i classici e Marx avevano posto al centro dei loro sistemi teorici.
E’ il fiorire dell’individualismo metodologico, che il pensiero neoclassico inserisce stabilmente all’interno della scienza economica.
Una quinta caratteristica possiamo rintracciarla nella cosiddetta astoricità delle leggi economiche. Assimilata l’economia alle scienze naturali, e alla fisica in particolare, le leggi economiche vengono ad assumere finalmente quel carattere assoluto ed eterno che si attribuisce alle leggi di natura. Il problema della scarsità fonda la validità universale e naturale delle leggi economiche. Ma perché ciò abbia senso è necessario espellere dall’analisi economica le relazioni sociali, esorcizzandole come una superstizione a un tempo inutile e in contrasto con le nuove acquisizioni scientifiche. Con la rivoluzione marginalista nacque il progetto riduzionista del discorso economico, portato poi avanti dalla teoria neoclassica, secondo il quale all’economia non viene riconosciuto altro ambito di studio se non quello delle sole relazioni tecniche, in particolare le relazioni tra uomo e natura. Quindi da una parte abbiamo il riduzionismo individualista, che aveva portato all’eliminazione delle classi sociali, e dall’altra abbiamo il riduzionismo antistoricista, che portò all’eliminazione delle relazioni sociali, con la conseguenza di portare all’eliminazione dell’analisi del loro mutamento.
L’ultimo elemento distintivo che andremo a trattare risiede nella sostituzione di una teoria soggettivista del valore a quella oggettivista.
Alla base del principio soggettivo sta le tesi secondo la quale tutti i valori sono individuali e soggettivi. Individuali significa che vanno intesi sempre come fini di particolari individui. Non esistono cioè VALORI COLLETTIVI esprimibili come fini di gruppi o di classi sociali STORICAMENTE DETERMINATE. È evidente il legame che accomuna la teoria soggettiva del valore al relativismo filosofico.
L’elemento della soggettività indica che un valore è tale perche qualcuno lo sceglie in quanto fine; l’elemento dell’individualità postula invece che deve esserci un particolare soggetto cui imputare quel fine. Nell’opposta concezione invece, quella del valore oggettivo, i valori esistono indipendentemente dalle scelte individuali. L’individuo può accogliere o meno i valori oggettivi, ma non può influenzarli.
Una conseguenza immediata, derivante dall’applicazione della formulazione neoclassica del valore soggettivo, è che la teoria della distribuzione diventa una caso particolare, un problema di determinazione dei prezzi dei servizi dei fattori produttivi piuttosto che di ripartizione del reddito tra le varie classi sociali.
Riferimenti bibliografici:
- Screpanti, E., e Zamagni, S., “Profilo di storia del pensiero economico. Dalle origini a Keynes. Terza ediz. aggiornata e ampliata”.
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Lavoie, M., “L’Économie postkeynésienne” (I/ L’eterodossia postkeynesiana – traduzione italiana a cura di Stefano Lucarelli, con la collaborazione di Marco Passarella)
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